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Vino distillato dalle piaghe
angelo ricavato dal dolore
oggi compio, qui, l’ennesimo delitto
- delitto della poesia!
Il bambino ricuce così la sua ferita
- chirurgia di parole.
Ma quale gesto lo ha squartato?
forse un uncino di bocche truccate
che hanno parlato una lingua non vera,
o quel gigante che chiamano abbandono,
o quel nulla che ha distratto il genitore.
Ma non importa ormai - in questo mattino
illuminato d’immenso orrore,
qui nel futuro avverato - quale delitto
abbia reso così feroce il bambino
fino a farlo urlare con voce maschia
e per mille fogli senza orario né meta consumarlo
- oh poesia di una biro così seria!
Senza l’ultimo pudore cosa resta?
nella vocazione di un provocatore
non c’è poesia, no, pulsa una bieca
impudica ispezione da squartatore.
Si sa, il bambino che non si sente amato
risponde così: inconsciamente s’ammala
e muore – mentre colui che è ben dotato
di poetico talento procede e s’alza
nel delitto, angelico distruttore.
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O lingua italiana
gabbia della mia lingua nativa
materna, paterna, fraterna
avuta in ogni possibile modo
e che in ogni modo mi tiene
fammi uscire!
Vediamo già da troppo tempo
oltre questa cintura di cattiveria,
confini che ci spetta di rompere.
La morte gioca qui con libertà
e i suoi maestri sono noti, finché
entra con forza nei nostri girotondi
amorosi, vitali, divinamente puerili.
Ho cercato di respingere quella mano
che si ostina a voler cogliere la mia,
a farci girare, a girare con noi.
Ieri sera è stata un’altra sera
che potrei dire “non venuta dalla mia mano”,
né mia, né nostra, né di nessuno
e nemmeno di questa lingua, non italiana.
Ma io come poeta, leccato per primo
da questa lingua di morte, sono il primo
tra i morti, il primo tra gli italiani.