Diario della morte italiana

Diario della morte italiana

sabato 21 gennaio 2023

 






Ode alla mia rabbia

 

 

Infaticabile eroica Rabbia

che insorgi dalle cantine,

le viscere dell'essere;

se una ferita brucia ancora

tu sei maestra nel caldeggiarla

come il vetraio che soffia,

demone del fuoco, Efesto.

 

Questa sera ho visto

un film su di un carcere

e sulla Rabbia dei carcerati

contro il poliziotto torturatore;

e il vile direttore e quello

a cui giacca e cravatta

non servono all'eleganza

ma all'abilità nei volgari affari

quali l'Ordine steso sulle ingiustizie,

la Disciplina stesa con Repressione

e altri idoli borghesi come la Pace

falsa delle istituzioni più feroci.

Ma in tutto questo un fatto,

non so quale né mi interessa,

ha collegato me a quei ribelli

e allora, non più calmo e ordinario,

sono stato sollevato dalla sedia

e di colpo quegli uomini torturati

erano con me colleghi, fratelli

finché, poi, quel soffio incendiario

mi ha riportato giù, a sedermi,

ma cupo e tutto ravvolto in me stesso

come un gatto pronto alla lotta

o come una corda, fascio di muscoli

ingialliti dalla bile e atti a risalire in piedi

per magnificarsi in tigre o leone.

 

Ma questo si ha in un corpo solo:

leone tutt'uno con il suo domatore

che sono io, il civile, il poeta, il mite...

Orfei di me stesso, direi, con uno scherzo,

con la gioia che pure la Rabbia infonde

alla sua triste preda in quanto maestra,

perché nella lotta si torce, ma ride come iena;

Rabbia cupa dell'assassino, direi pure,

ma un assassino che non ha mai ucciso

pur essendo stato ucciso ogni volta

per quella porta dell'inferno si spalanca

quando in me qualcosa di sacro si rompe,

la cosa più dolce che possa essere violata,

e allora la Rabbia di un sicuro omicida

sgomita e sfonda e sale dal dolore

a reclamare un posto suo, un trono,

o una tomba a cui votarsi, vigile e casta,

perché nei tanti mondi che abitiamo

e sono come sfere celesti, uno di questi

è perduto, e là dentro è il corpo nostro,

ucciso; e per coscienza io so, ricordo tutto

e urlo ma non posso più averlo indietro.

 

Allora viene lei, con il suo ferino artiglio,

strascico dell'irreparabile condizione,

istinto tempestoso ma fitto di coscienza,

nonché atto finale della ragione... la Rabbia;

non il groppo folle e senza oggetto 

dei nevrotici, non l'ingiuria insensata

ma il composto lamento, perfino la poesia

su quel me stesso perduto, e anche perfetto

è il componimento di rime qui e là collocate,  

da poeta che non mente, soffiante tigre civile,

perenne domatore di me stesso.

 

Ma come si può tacitare chi ha così ragione?

Ogni lutto in cui ho pianto la mia morte,

ogni rogo con cui mi hanno dato alle fiamme

fino a questa mia ultima morte, l'ultimo decesso;

io che avevo scoperto la magica pozione,

il segreto del paradiso, un sacro Graal terreno

che nessuno doveva più cercare nell'Aldilà;

la bilancia delle forze, Jin e Jang concesso

in un sol sorso ed ero io che lo stavo bevendo

in quella sfera celeste che era di cristallo

e non lo sapevo, contrappeso di santità

contro decenni di dissacrazione; ero io

il resuscitato, la ritrovata vita che stavo vivendo.

Non si additi perciò questa mia Rabbia

come un parto della "cattiveria", come "tara"

che covavo già dentro, perché questo sembra

a chi non è avvezzo alla ragione, l'indegno

che per viltà non sarà mai unto dalla rabbia.

Al contrario: è un peso della santità, un parto

della bontà distrutta, Cristo nel tempio!

Poeta bandito dalla poesia riscoperta

e oggi cosciente e tremante nella notte,

nella lunghissima notte della Rabbia;

perché è il suo lungo ferro una forza bruta

e soave che seppellisce in una gelida fossa

il bel corpo della ancora pulsante santità

e con essa ogni pietà che le appartiene,

e il cuore ancora vivo e appena riconosciuto,

e la coscienza della ferita mortale, pure lei

sotterra, perché non serve ai fini della riscossa

se non come cibo per il suo fiero verme.

Ogni ragione che era suprema è negata

perché sul trono siede qualcun'altro,

così il carcerato ha vinto sul carceriere, 

la belva ha staccato la testa al domatore,

il demone ha reso i sobborghi l'unica città,

il lupo che ulula alla luna, l'antico selvaggio

che si è riscoperto nel pallido civile, 

lo spirito dei guerrieri, degli eroi e dei puri...

questo e molto altro siede oggi sul trono!

 

La Rabbia è un intrico di rami spinosi, 

perché è spirito costretto, non libero,

e la sola felicità è nella guerra, nella boxe,

pugni e calci dati nell'aria della notte

come un Orfeo che mi dà una sua musica

e questa poesia dimostra che è sublime,

che nel misto della Rabbia c'è magnificenza

non solo uno sconvolto stato morale,

e si ravvisa anche un metro classico

e la gioia del gioco di parole, la beffa

che pure rivolgo a me stesso per esuberanza

di Rabbia ( chi non ha notato, infatti,

 il gioco Orfei Orfeo?  io l'ho notato!)

 

Leggo spesso di grandi uomini arrabbiati,

e li vedo non solo nel cinema secondario,

vero lazzaretto di rabbiosi, ma nel primario:

da Chaplin che prende a calci Hitler

alla "Stangata", a "Nick mano fredda";

"Casanova'70" si arrabbia perché impotente,

ma non è da meno Bruce Lee verso i giapponesi!   

E nel teatro è la rabbia che muove Amleto

alla vendetta del padre, come nell'antica poesia

Telemaco è infuriato contro i proci.

Anche la poesia araba preislamica è collerica

e questo perché i poeti erano stati banditi

e l'uno scriveva contro la sua tribù

l'altro contro sua madre alleata al nemico,

e nel tumulto della grande Rabbia questi

omise perfino di benedire in poesia il cammello,

convenzione rituale della poesia classica.

 

In questa notte fredda di metà gennaio

vengo scaldato così bene dalla mia Amica

e la lodo ormai da un'ora, e quasi non vedo

più il mio cervello bruciato, la testa dolente

spaccata come un melone da un filo di paglia;

è la mia ragione che torna, anch'essa Amica,

a cercare di prendere la torre, mentre lei ride

da lassù come disperata iena del deserto

e sembra brutta, gobba, spelacchiata

 finché di nuovo si rifà in elegia maestosa,

e poi di nuovo muta in vendetta e mi richiude

sotto la sua mole di calcolante mostro

portato con schiena dritta, però,

finché di nuovo muta la mole grassa

forse in una bestia stupida e pelosa,

e mi guarda con barba e mi bruca testarda

dal cranio testardo in cui l'ostinazione

dà alla Rabbia la sua oltranza; e bassa

è la fronte che riconosco, quella ebetudine

da ovino che toglie il sonno, se la nostra vita

immensa così viene riposta in un recinto,

d'un colpo veloce derubata dalla Rabbia.