Diario della morte italiana

Diario della morte italiana

giovedì 13 ottobre 2016







UN PROBLEMA ANCORA APERTO 

PER NOI LETTORI:

Evgenij Onegin

è di Aleksandr Puškin

o dei suoi traduttori?




strofa 1, capitolo XXXV: 



la città che si sveglia al rullo del tamburo, 

il fumo che sale dai camini in colonne blu, 

il fornaio tedesco che s’affaccia, puntuale, 

col suo cappellino di carta, 

allo sportello della bottega, 

la neve mattutina che scricchiola 

sotto il passo sollecito della lattaia finnica.

Non sapremo mai abbastanza quanto lo stile metrico e ritmico sia sostanza della poesia. E' il respiro per l’apneista. E anche quando il poeta stesso non se ne pone il problema, il lettore comunque ne è toccato, e di certo il traduttore deve porselo.

La strofa qui sopra è ripresa dall'Evgenij Onegin, un romanzo in versi lungo quasi 200 pagine, che riporto in minima parte nel proseguo di questo post. 


L’Onegin sembra essere un vero e proprio testamento lirico di Puškin, ed anche se al primo approccio la lirica appare modesta, e addirittura comica, ecco che poi, continuando la lettura, essa si erge nel suo carattere di opera magna e immensa, una specie di Bibbia popolaresca e nobile dove ogni due versi incontriamo un panettiere, un postino, una sarta in magica alternanza con i più grandi dèi greci e romani. Ed è così che comprendiamo come anche i piccoli fatti quotidiani sono in realtà grandi, e come le più modeste personalità del popolo possono essere magnifiche (al di là di qualsiasi magnificazione poetica!).

Ma l’Onegin è anche un’opera edile eccezionale, dalla struttura classica perfetta. Classica ma anche moderna, se pensiamo alla materia metrica con cui è stata concepita e realizzata: tetrapodia è il suo nome. 
Solo in apparenza l’Onegin è “semplice”. La semplicità, se c’è, è solo un effetto del cuore, dell’umanità e della personalità del poeta che sceglie di esprimersi con parole comuni, non certo del metro assunto. Qualsiasi metro chiede ferrea disciplina, pure il cosiddetto verso libero, che è un anti-rimatore per eccellenza, un fluido liberatore e anche dissacratore. Infatti, se nel verso libero troviamo delle rime volontarie, fossero pure le più belle mai udite, ebbene queste devono essere motivate e ben allogate nella struttura metricamente liberata, altrimenti rappresentano un’anomalia, un difetto, e anche una cacofonia. 
Ma torniamo all'Onegin di Puskin:


«La natura russa, l'anima russa, il carattere russo... la lingua russa si sono riflessi in Puskin con una purezza, e in una tale bellezza purificata come si riflette la campagna sulla superficie convessa di una lente.» (Gogol).
«Poema non fantastico, ma palpabilmente reale, nel quale è incarnata la vera vita russa con una tale forza creativa e con una tale perfezione, quale non era esistita mai prima di Puskin, forse non è esistita neppure dopo di lui.» (Dostoevskij).
Tradurre questa lingua di diamante è impresa da far impazzire di disperazione. (Vogüé).

Ecco dunque affacciarsi il problema della traduzione.
Nel caso dello scrittore russo per il lettore italiano non c’è scampo, bisogna affidarsi mani e piedi al traduttore. Seppure ci fosse, il testo a fronte non avrebbe senso; quel testo a fronte che è così importante per un lettore vero, il quale ha sempre bisogno di basarsi sull’originale per comprendere la poesia.   


Passiamo dunque alla traduzione di Gabbrielli.

Evgenij Onegin di Aleksandr Puskin 

CAPITOLO PRIMO 
                       E a vivere s’affretta e a provare sensazioni.
                                                                              K. Vjàzemskij

I
 “Quel sant’uomo di mio zio!
Guarda cosa ha escogitato
Per aver rispetto quando
Per davvero s’è ammalato.
Il suo esempio faccia scuola;
Ma, perdio, che noia stare
Giorno e notte a un capezzale,
Senza muoversi d’un passo!
E che bella ipocrisia
Coccolare un moribondo,
Rassettarlo sui guanciali,
Dargli farmaci e conforti,
Sospirando dentro sé:
Ma che il diavolo ti porti!”

II

Mentre vola, posta a posta,
La corriera nella polvere,
Questo pensa un rompicollo
Che il voler di Giove ha reso
Dei parenti unico erede.
- Permettete, cari amici
Di Ruslan e di Ludmilla,
Che senz’altro vi presenti
Qui l’eroe del mio romanzo:
È il mio buon amico Onegin,
Nato in riva alla Nevà,
Dove forse anche tu avesti
Vita e fama, o mio lettore.
Anch’io un tempo stavo là
– Ma a me nuoce il Settentrione.


Il poeta russo usa una metrica che noi italiani non conosciamo, la tetrapodia, appunto, ovvero dei versi di quattro piedi con accento sul secondo terminanti con una parola piana..
Emily Dickinson la usa, anche se personalizzata e con molte licenze (i suoi trattini separatori, per esempio), ma la sua tetrapodia spesso s'intervalla con una tripodia e con figure retoriche tra le più diverse, all'interno di una stupenda brachilogia. 

Those looked that lived – that Day –   -----: allitterazione
The Bell within the steeple wild
The flying tidings told –
How much can come                 --------------- : tetrapodia
And much can go,                       --------------- :  tetrapodia
And yet abide the World!


         (Emily Dickinson, There came a Wind like a Bugle)

Ma se posso leggere l'inglese di Emily Dickinson nella lingua originale, non posso altrettanto leggere il russo. Quindi mi affido ai lettori più sapienti di me, i quali mi dicono che il verso dell’Onegin corre, come la sua lattaia finnica. O perlomeno ciò si evince dai saggi compulsati durante il mio autodidatta studio su Puškin.
Non sarà grazie a questo metro "veloce" che il poeta riesce a stare così bene al passo dei fatti più fuggevoli della vita? Alla sostanza della quotidianità?  
E infine: non sarà per questo metro che l’Onegin sta nella letteratura mondiale come una delle opere meglio riuscite?

Riuscire a cogliere in flagrante la vita è ovviamente anche merito del modello metrico con il suo ritmo, e pertanto la domanda che si pone è ancor più ovvia : come può il traduttore italiano rendere a noi lettori la tetrapodia dell’Onegin?

A questo punto andiamo a considerare alcune traduzioni, ma prima analizziamone gli assunti. 

La nostra forma metrica più simile sarebbe il novenario. Ed infatti la traduzione riportata qui sopra, del sig. Gabbrielli, è in novenari.
Il novenario è appropriato sia per quantità di sillabe sia per la parola piana finale come nella tetrapodia. Inoltre, nel novenario, se l'ultima parola è piana esso si forma con nove sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola diventano dieci oppure otto, come nell’esempio qui sotto. 

Da Pascoli:

Il | gior|no| fu | pie| no| di| lam| pi
Ma| ora| ver|ran|no| le | stel |le



Il novenario però consta di tre accenti, cioè tre battute, quindi è musicalmente più lungo - ma ora... verranno... le stelle - , meno agile della tetrapodia, la quale permette ai lettori russi di arrivare con due salti, e non tre, alla fine del verso:

Но, боже мой,  какая скука

Nella citazione da Pascoli vediamo che la parola “stelle” è sdrucciola, implica uno scivolamento. Ma siamo pur sempre nella poesia di Pascoli, sicuramente inferiore a quella di Puškin. Pensiamo solo al fatto che egli, uno dei nostri più grandi poeti dei primi del '900,  viene ricordato per quella sua "cavallina storna" che in realtà è liricamente piuttosto pesante e dura nella sequenza di queste coppie di strofe-distici di undici sillabe (enedecasillabi) con rime baciate AA - BB .    
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d’otto tra miei figli e figlie;                                                  e la sua mano non toccò mai briglie.

Tu che ti senti ai fianchi l’uragano
tu dai retta alla sua piccola mano
(...)
Strofe che voglio qui riportare perché nel parallelo comparativo con il grande poeta russo dei primi dell'800 esse si manifestano meglio. E dicono bene quale retorica sentimentale dominava in Italia a quel tempo. Retorica in cui cade tentenna e cade quasi del tutto la tragedia immensa che queste strofe rappresentano, ossia la cavallina che torna alla stalla senza il padre del poeta, ucciso mentre era sul calesse guidato proprio da questa cavalla quando Pascoli era bambino. Se allora non solleticavano il sorriso, per via di  quella retorica, oggi non possiamo non sorridere leggendole. Sebbene quella retorica sia ancora oggi vivissima nella sua attuale restaurazione, nel revanchismo televisivo delle lacrime a pranzo e a cena, dei reality e delle fiction, degni sostituti delle telenovelas degli anni '80 ma con al posto di "Andrea celeste" il mafioso e il vip che piangono in un carcere, su un'isola. 
Pur rispettando il dolore del grande poeta italiano, beninteso, voglio solo dire che 
Puskin, cent'anni prima di lui, viene ricordato ancora oggi dal popolo russo per i suoi poemi epici - come l'Onegin - e i suoi romanzi storici colmi di spirito e di allegria, nonché come fondatore della lingua letteraria russa.  

                        " La nostra memoria serba sin dall'infanzia un nome allegro: Puškin "
                                                                                                  Aleksandr Blok



Ad animare i due poeti è un diverso spirito, che non possiamo mai paragonare con giustizia, ma anche lo scatto e l’energia del metro hanno il loro ruolo. 

Ecco qui i versi originali dell’Onegin. In alto vediamo la scritta “Capitolo primo”, più in basso a destra l’esergo, e poi quella parte ditesto che ho riportato sopra tradotto in italiano.

ГЛАВА ПЕРВАЯ
И жить торопится и чувствовать спешит.
                           К. Вяземский.
I.
“Мой дядя самых честных правил, 4
Когда не в шутку занемог,
Он уважать себя заставил
И лучше выдумать не мог.
Его пример другим наука;
Но, боже мой, какая скука
С больным сидеть и день и ночь,
Не отходя ни шагу прочь!
Какое низкое коварство
Полу-живого забавлять,
Ему подушки поправлять,
Печально подносить лекарство,
Вздыхать и думать про себя:
Когда же чорт возьмет тебя!”


La tetrapodia distica o giambica di Puškin è per sua natura svelta come la poesia di Omero o Orazio, tanto per esemplificare, e il metro greco e latino dei grandi era spesso composto da sei, sette e talvolta otto posizioni metriche (che semplificando chiamiamo "sillabe"). Normalmente si tratta di esametro dattilici seguiti da un pentametro dattilico, e nelle satire oraziane, che per spirito potrebbero essere prese a modello traduttivo dell'Onegin, vi sono versi settenari e ottonari. 

A Mecenate 

Sangue di antichi re, tu Mecenate, 
sostegno e dolce vanto dei miei giorni: 
c’è chi gode ad alzare con il cocchio 
la polvere di Olimpia, ed evitando 
la meta con le ruote incandescenti, 
fa sua la palma che gli dà la gloria 
e lo innalza agli dèi, re della terra.
                        
     traduzione:        

Maecenas atavis edite regibus, 
o et praesidium et dulce decus meum: 
sunt quos curriculo pulverem Olympicum 
collegisse iuvat metaque fervidis 
evitata rotis palmaque nobilis 
terrarum dominos evehit ad deos; 

                                                          (tratto da I quattro libri delle odi 
                                                                                                   Orazio)

Ma l’ottonario rende sette-otto sillabe contro le otto-nove della tetrapodia, per cui è impossibile mantenere fedelmente la struttura strofica, ossia rispettare i quattordici versi dei sonetti puskiani. E poi l’ottonario latino è un verso sinceramente sorpassato, antico, desueto, se vogliamo metterla sul piano della percezione moderna italiana.



Per non parlare della poesia duecentesca in senari, settenari, ottonari e novenari dei giullari, dei madrigalisti, dei goliardi e dei trovatori, coloro che sia nelle corti sia nelle strade componevano della poesia licenziosa e satirica; o anche religiosa e moralista come quella di alcuni monaci poeti. Dal Laudario di Cortona a moltri altri laudari ritrovati, dai Carmina burana a Jacopone da Todi ecc. ecc. 

Chi vol lo mondo desprezzare [Novenario: 2-4-8]
sempre la morte dea pensare. [Novenario: (1)-4-8]

La morte è fera e dura e forte, [Novenario: 2-4-6-8]
rompe mura e spezza porte: [1-3-5-7]
ella è sì comune sorte, [(1)-3-5-7]
che verun ne pò campare. [3-5-7] 
                                           (dal Laudario di Cortona)


In terra summus
rex est hoc tempore nummus
(...)
Nummo venalis
favet ordo pontificalis.
Nummus in abbatum
cameris retinet dominatum.

traduzione:

Sulla terra domina
regina assoluta la pecunia.
C...)
vende denaro 
per favori l'ordine del clero. 
Nelle casse i prelati 
conservano il loro beneamati.

                                   (dai Carmina Burana traduzione mia)


Poi arriva Dante e surclassa questa metrica "bizantina" fatta di quaternari e senari in alternanze cantate. Dante non scrive per essere cantato ma per essere letto o recitato con forza intellettuale, gnomica, riflessiva. E stabilisce la tradizione dell'endecasillabo giocato in terzine. L'ottonario, tuttavia, è duro a morire, e tornerà in auge anche nel '900 grazie a Carducci e Pascoli. Ma non stiamo qui a fare la storia dell'ottonario, quanto invece a cercare una soluzione per tradurre la svelta tetrapodia, e perciò vagliamo diverse possibilità. 

Questo è un famoso distico decasillabo del Manzoni. Il decasillabo è simile all'ottonario. 

S'ode| a |des|tra| uno |squil|lo| di | trom| ba

a| si|nis|tra | ris|pon|de |uno| squil|lo

Ma come potete notare, il decasillabo è strano, oltre che difficile per il traduttore in quanto frasi bene divisibili in dieci sillabe in italiano non si prestano, sono poche. Inoltre, parlando ritmicamente, non è ancora svelto come dev'essere.

Il problema della modernità e della tradizionalità del verso non è comunque scontato e il traduttore, che opera per l'editore ma anche per noi, deve porselo. 
Puškin non è Omero né Orazio, né Jacopone da Todi né un giullare, egli è nato nel 1799 ed è quasi contemporaneo della modernissima Emily Dickinson; modernissima non solo per ispirazione ma anche per libertà metrica, stile, invenzioni e licenze (vedi i trattini di congiunzione che non congiungono, i versi sbilenchi, le rime irregolari, etc.).
Ma il russo non è meno moderno, se a trent’anni d’età compone l’Onegin. Al colmo della sua giovinezza, esattamente nel 1830, quando Emily Dickinson nasce.

Dunque perché non ricorrere al verso libero per essere moderni?
No. Andremmo a discapito della struttura, e quindi della poesia nel suo respiro! Immaginiamo cosa diventerebbe questo edificio metrico così precisamente sonante per mezzo della tatrapodia, fatto di cadenze e rime. 
Il primo nemico del verso libero non è la rima, ma la cadenza, la ritmicità regolare, ed è proprio questa ritmicità ad aver spinto Puškin nelle braccia della tatrapodia.
Puškin non è un poeta da verso libero, ma è sia moderno sia tradizionalista.
Secondo tradizione, però, i poeti italiani usano l’endecasillabo, anzi: dal dantesco 1300 in poi non hanno mai smesso e ancora oggi conosco chi lo usa volentieri o vorrebbe abbandonarlo ma proprio non riesce (come mi scrive in una email il poeta Davide Nota, che è nato nel 1981.)  

Potrei aggiungere che l’endecasillabo riesce ad essere tradizionale e moderno come può darsi solo in un  Paese archeologico, retrogrado, reazionario e refrattario al cambiamento come l’Italia di oggi.
E non possiamo tradurre la poesia epica di Puškin nella poesia epica di Dante.   

Nel |mez|zo| del |cam|mìn |di |nos|tra |vi|ta
mi | ri|tro|vái | per| u|na | sel|va os|cú|ra

La lattaia finnica ne sarebbe inevitabilmente rallentata, lei che invece va spedita coi suoi stivali , nel cammin di sua vita ,  sulla scrocchiante neve russa. 
Il latte fresco saebbe presto yogurt.

I versi di Puškin sono brevi, agili, e il traduttore deve stare attento, la forzatura in un metro di undici sillabe potrebbe rivelarsi un crimine. E noi lettori ne saremmo complici.

Lo Gatto (Napoli 1890-Roma 1983) nel 1925 traduce Evgenij Onegin in versi liberi. Fu forse la sua giovinezza (allora era trentenne come lo fu Puškin quando la scrisse), o fu Puškin stesso a consigliarlo in questo senso? 
Quella giovinezza che è naturalmente vicina alla freschezza e alla vitalità del testo - ma poi, in una successiva edizione, da buon italiano fedele alla tradizione nel senso retrogrado, egli usa l’endecasillabo (proprio l’endecasillabo!) :

Di principi onestissimi, mio zio,
or che giace ammalato per davvero,
fa sì che lo rispetti infine anch'io;
e non poteva aver miglior pensiero;
esempio agli altri ed ammaestramento:
ma quale noia, o Dio, quale tormento
ad un infermo muoversi d'intorno,
senza mai allontanarsi, e notte e giorno!
Oh, quale ipocrisia, quale meschina
perfidia divertire un moribondo,
aggiustare i guanciali a un gemebondo,
con faccia triste dar la medicina,
sospirare e pensar fra sé: che guai!
quando all'inferno dunque te n'andrai?

                       Lo Gatto, traduzione del 1937


La casa editrice Quodlibet, che oggi ristampa l’Onegin nella traduzione endecasillabica di Lo Gatto  è tuttavia molto fiera nel presentare il suo libro :

“Questa che presentiamo è la più bella traduzione finora fatta in italiano. Ettore Lo Gatto ha raggiunto con essa quella leggerezza, musicalità e naturalità così vicina alla lingua parlata per cui è celebre Puškin. Il verso novenario giambico russo è restituito nell’endecasillabo regolare italiano, che è il verso più simile per capacità narrativa; ed è mantenuto lo stesso schema di rime dell’originale, cosa importantissima per godere il giro ritmico, la facile leggibilità e l’incanto del racconto.”
                                    
  http://www.quodlibet.it/libro/9788874622153


Questa è invece la traduzione (in prosa) di Bazzarelli, anno 1960 :

Mio zio, uomo dei più onesti principii, quando non per celia si
ammalò, seppe farsi rispettare, e non poteva avere una migliore
idea. Il suo esempio è insegnamento per gli altri; ma, Dio mio,
che noia starsene giorno e notte con un malato, senza
allontanarsi neppur d’un passo! E che bassa perfidia far
divertire uno che è mezzo morto, rassettargli i guanciali,
porgergli la medicina con volto triste, sospirare e pensare fra sé:
ma il diavolo quando ti porterà via?

E questa è la traduzione (in novenari ) di Giovanni Giudici, anno 1975 :

Mio zio così preciso e retto,
Or che sul serio s’è ammalato,
Si è fatto portare rispetto
E proprio il meglio ha escogitato!
Il suo esempio sia di lezione
:
Ma, Dio mio, quale afflizione
Notte e d
ì un malato vegliare
Mai un passo potendo fare!
E quale perfidia meschina
Già mezzomorto vezzeggiarlo,
Sui cuscini accomodarlo,
Dargli mesto la medicina,
Sospirando e pensando fra te.
Ti porti il diavolo con sé!”



Come vi sembra infine la traduzione di Giudici?  Lascio a voi lettori il giudizio. E spero che questa disamina servirà a qualcuno, oltre che al mio piacere di porre problemi.  


                                                      Poetainazione

venerdì 23 settembre 2016








Questi versi nascono da un episodio avvenuto qualche giorno fa. 
 Dei ventenni già noti alle mie finestre, 
 facevano il solito strafottente e prolungato rumore a tarda notte. 
 Siamo dunque finiti in una lite dalla finestra alla strada, 
 là dove la protesta è finita nella minaccia di "darmi un'accettata...
 un giorno di questi, se mi trovano da solo".
 Uno di loro mi ha anche mostrato il coltello.





La non-vita
osso gettato dall’alto
bacile di piscio
che da un misero potere 
a occhi vuoti di ventenni 
e bocche cariche di rumori
in sporco avanzo dialettale
ha nutrito romani senza luogo 
in questa Roma che non è!

Ragazzi
privi d'ogni proprietà di forza e bellezza,
se la sola forza, la sola bellezza che conta,
ormai io so, vengono dal possesso di sé,
dei propri occhi non ciechi.

E se nel pieno dei nostri occhi non c'è
magia di sogni, ragione d'idee
- sole forze che rendono vita la vita,
realtà la realtà -  allora è la non-vita, 
la non-realtà questo tutto non più vero.

La comitiva si raduna sotto le finestre,
ma la strada è vuota
(la strada che non è più palestra).
“Siamo tanti”, si dicono fieri i ventenni,
e sono tanti in questa Roma,
ma Roma è deserta.

Un avanzo d’ossa da cani
e un bacile di dolciastro piscio
dall'alto ha nutrito romani
al vezzo di quel Romanzo Criminale
di cui sono carne queste ombre.

Ed io, male incarnato nella vita,
anch'io non sono più nel mondo
se stento ancora qualcosa di vivo;
magro autore della mia forma,
fuori dai piani sovrastanti
dove si scrivono certi Romanzi
e da questa televisiva vezzosa filiale 
di vicoli sottostanti.

Non telespettatore mendicante
non ansioso padrone d’oggetti
non bevitore ruttante
non ricettore di precetti,
disteso su questo letto come esule
nella casa di cui sono proprietario;
io più buio di questa oscurità
e del sabato dove i ventenni, 
con sporca morte in miseri cuori,
parlano di festa, e festa è
se comunque s’accendono, più di me,
divorando come bestie l’osso,
leccando nel bacile.

Allogati nella trama del Romanzo Ufficiale
così bene che non useranno più le mani 
ma il coltello, dicono,
per uccidere me, o i loro coetanei,
in questo giorno di festa
che credono essere loro.

Dunque, che più niente sia loro ecco la prova! 
Non i loro amici, così turpi soci,
non i loro funerei giorni festosi,
mentre mi scrutano feroci
e con occhi che non vedono
con nervi che non controllano
poiché non ne hanno proprietà,
scendono in massa, da romani,
in questo sabato di precetto
da nere case a nessuna città.

Eppure tutti noi siamo per essere,
tutti noi dipinti per dipingere noi stessi
in questa città che un tempo sosteneva da sé 
ogni impossibile sogno, ogni possibile realtà;
e fu così - ecco un’altra prova – che venni
in questa Roma popolare, sedici anni fa, 
e crebbi qui la mia dimora come un ragno,
attaccato ad essa in modo oscuro e beato,  
in questo rione dove bene coincidevano, 
già oltre il mio cuore, Sogno e Realtà.

Ma la miseria della non-vita
ha poi fatto il suo corso, e qui,
dall’alto guidata, certo,
ma anche dal basso accettata;
avanzo dei piani alti, sì
ma anche dei fedeli semi-interrati,
è diventata feroce e immonda
proprio perché non diversa, non strana
a chi quaggiù era ancora umano.
Pastura da cani, dolce urina
quella non-vita con muscoli falsi
che ovunque oggi ci abbraccia.

E la natura popolare  
che nella dignitosa povertà 
offuscava ogni potere e portava 
la sua cultura d’essere, ha perso
così nel tempo i suoi diversi passi :
gli scherzi, con cui si davano i dissensi,
gli urli, che davano liberazioni,
e le serenate, che fermavano le strade
senza replicare i televisivi “talenti”
ma cantando ancora "barcaroli", "pupi biondi"
e stornelli da romana bocca sopravvivente.

Nemmeno due decenni e il potere 
ha dato qui i suoi replicanti più tristi, 
quei ritornelli d'un nero o allegro replicare
che non sono una croce portata
da romani che ridono perché violentati
o urlano perché impotenti, come sempre,  
secondo i canoni antichi della bestemmia,
no, fu la morte di Sogno-Realtà,
fu il canone del Non-essere-più,
ed ecco la carne muta di questi figli.

Questa cricca di madri e padri ne sono la prova!
Somiglianti a brutti amici o strani fratelli, 
ecco che adempiono muti, presumendo di educarli,
a prassi canoniche con fedeltà da sudditi:
il non-essere, da cui nessun altro essere deriva,
il non vedere, da cui canonica cecità discende,
il non-dire, che tramandasi in pragmatico mutismo.
Priva pure dell'amore impotente che fu dei poveri 
cosa resta allora di quest'ombra vanitosa? 
Solo il sacrificio dei figli, la carne muta. 














venerdì 5 febbraio 2016

Poveri scrittori italiani








Dal Blog di Luca della Casa

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Luca Della Casa

Luca Della Casa

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Secondo Umberto Eco: inutile inviare manoscritti se non si è nessuno...

Sep 8, 2014
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Umberto Eco, uno dei miei autori preferiti, giustificava l’ostracismo dei grandi editori, il clientelismo e l’esistenza dei cortiletti intellettuali. Burp. In ogni modo, “Il nome della rosa” e “Il pendolo di Foucault” non avrebbero mai visto la luce senza la sua precedente attività come “tuttologo” e galletto nel pollaio. D’altra parte, come lui stesso afferma, non senza una certa arroganza: “E se il vicino di casa di Proust fosse stato tanto più bravo di lui e nessuno se ne fosse accorto. Per lui sarebbe tristissimo, per l'umanità basta Proust, e avanza." Riporto il pezzo del “Genio”, per chi non l’avesse letto. Meditate gente, meditate. Però se vi piace scrivere/leggere non lasciatevi avvilire: che si fottano i cortiletti stantii e forforosi ;P

Caro XYZ,
Rispondo volentieri al suo messaggio perché spero così di raggiungere altre persone che si trovano nella sua situazione, per dire loro candidamente come vanno le cose a questo mondo. Vengo anzitutto alla sua ultima richiesta, se io sia disposto a leggere il suo manoscritto. La risposta è no, e le ragioni sono tutte ispirate a un profondo principio di lealtà. Io (ma questa situazione è comune a molti scrittori e studiosi di una certa notorietà) ricevo ogni settimana almeno una decina di manoscritti (spediti da persone che non hanno avuto la delicatezza di fare come lei, e chiedermi prima se potevano inviarlo), dei generi più svariati, in gran parte racconti e romanzi, ma anche opere storiche o addirittura dimostrazioni sull'esistenza di Atlantide o del continente scomparso di Mu. A questi si aggiungono bozze di libri inviati liberalmente da editori stranieri che chiedono un blurb, e cioè una di quelle frasi di raccomandazione dell'opera che si stampano poi sull'ultima di copertina o in fascetta. Dieci manoscritti alla settimana fanno 520 all'anno. Una persona come me, che fa il professore universitario, dirige una rivista scientifica e due collane specializzate, è tenuto a leggere (e correggere, e rileggere) tesi di laurea voluminosissime e manoscritti inviati per la pubblicazione, per dovere d'ufficio, oltre a seguire quanto si pubblica nel proprio campo, per tenersi dovutamente aggiornato (anche se la mole di materiale che arriva è anche quella insostenibile). Anche a volersi eroicamente occupare degli altri manoscritti in arrivo, si può dedicare al massimo (diciamo) due ore giornaliere, strappate al sonno, alla lettura di tale materiale - a parte il fatto che, dopo aver letto per obbligo centinaia di pagine, ballano gli occhi. Tenuto conto che per leggere (bene) un manoscritto che può andare da cento a quattrocento pagine, anche procedendo a tre minuti a pagina (che è lo standard della lettura veloce ad alta voce), calcolando un libro medio di 250 pagine, saremmo a dodici ore, e quindi 24 giorni per libro, i conti sono facili da fare. 24 giorni per 250 libri fa 4000 giorni, e l'anno ne ha 365. Pertanto chiunque (che non faccia il mestiere full time di lettore per una casa editrice), ricevendo un manoscritto promette di guardarlo, mente. Al massimo lo annusa, ne legge le prime righe, ed emette un giudizio evidentemente poco fondato. A me non piace ingannare la gente in questo modo.
La informo di un altro particolare, su cui nessuno ha mai detto la verità. Quando l'autore noto di una casa editrice invia alla direzione un manoscritto che ha ricevuto, dicendo che vale la pena di prenderlo in considerazione, rarissimamente gli si dà ascolto. Vige la persuasione che l'autore noto abbia rifilato loro qualcuno che lo stava sottomettendo a molte pressioni e che se la sia cavata in quel modo. È triste ma è così.
Passiamo ora alle case editrici. Per antica e fondata esperienza non credo alle case editrici che sollecitano manoscritti. Di solito cercano autori a pagamento, sono disposte a pubblicare qualsiasi cosa e se non rispondono è perché ne hanno già troppa. Sul funzionamento di queste case si veda cosa racconto nel mio Pendolo di Foucault a proposito del signor Garamond. È un romanzo, ma fondato su fatti reali.
Una casa editrice seria e importante, che non sollecita pubblicamente manoscritti, ne riceve comunque tantissimi - certamente cento volte più di quanti ne riceva io. Di solito (ma non esiste una regola generale) cerca di farli guardare tutti. È improbabile che li possa leggere il direttore editoriale (altrimenti non avrebbe tempo per dirigere), e spesso li si affida a lettori esterni.
Quando lavoravo in una casa editrice ne conoscevo uno, intelligentissimo e con una penna intrisa nel vetriolo, che passava la giornata sdraiato sul letto e leggeva tutti i manoscritti che riceveva. Queste letture gli venivano pagate con molta parsimonia, ma tutto sommato così campava. Li leggeva davvero, e mandava giudizi di fuoco - anche se qualche volta esprimeva rispetto e ammirazione per qualche testo. In casa editrice si faceva fatica a leggere tutti i giudizi, di una o due cartelle, che costui inviava giorno per giorno. Io adesso non ricordo bene (anche perché di solito i manoscritti in arrivo sono di carattere narrativo, e io mi occupavo solo di saggistica) ma non ho presente alcun manoscritto che sia poi diventato un libro.
Perché? Anzitutto si legga il gustoso libretto di Fabio Mauri, I 21 modi di non pubblicare un libro (Bologna, Il Mulino, 1990; per questo libro ho scritto una prefazione: Chi manoscrive è perduto). Riassumendo, un bravo editore è ansioso di scoprire nuovi talenti ma non si fida dell'autore che spunta improvvisamente dal nulla. Va cercare il talento là dove si forma, così come avviene nello sport, ed è raro che qualcuno arrivi ad essere assunto come centravanti della Juventus se non è stato scoperto e apprezzato mentre giocava in una squadra di serie B, e prima di serie C, e prima ancora nella squadra della polisportiva locale o dell'oratorio salesiano. La vita letteraria, almeno dai tempi di Catullo sino a oggi, è fatta di gruppi, di persone anche giovanissime che s'incontrano e si scambiano i loro lavori, poi li pubblicano su una piccola rivista, poi su una più nota, e passano, per così dire, una prima selezione da parte dei loro pari. Ed è lì che l'editore va a cercare le personalità interessanti. È verissimo che può esistere anche il genio sconosciuto, che vive in un paesino isolato dal mondo, ma di solito ogni attività "creativa" si svolge tra gli altri, e in questo modo si affrontano i primi giudizi, si impara. Se un editore cerca qualcuno capace di fargli una buona biografia di Giulio Cesare, va a sfogliare le riviste di storia, o i programmi dei convegni sulla storia romana. Solo così sa che una persona, che sostiene di essere esperta su Giulio Cesare, è già stata valutata da chi segue queste cose, e ha così una prima garanzia. Ma lo stesso avviene anche per i giovani poeti, che incominciano ad apparire su piccole riviste di poesia, o ricevono il premio di poesia per i liceali di Roccacannuccia, e iniziano a farsi conoscere. Se non hanno saputo arrivare almeno sino a quel punto, dove stavano, con chi si misuravano?
Il genio solitario non è mai escluso, ma quando si legge di scrittori ignorati in vita e scoperti dopo la morte, esempio massimo Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si vede che in vita frequentavano cenacoli letterari, erano stimati da molti scrittori magari meno bravi e più fortunati di loro, non erano affatto dei selvaggi spuntati dal nulla. Raramente un grande giornalista è arrivato al quotidiano nazionale senza prima aver mostrato le sue qualità sulla gazzetta locale, o addirittura sul bollettino parrocchiale. Chieda ai grandi giornalisti. Le diranno tanti che hanno fatto una lunga gavetta e solo così sono diventati poi notissimi - anche perché far la gavetta vuole dire migliorare lentamente giorno per giorno.
Questa persuasione, che gli editori hanno, che di solito è meglio cercare i futuri campioni in palestra, è giusta, e il più delle volte ha funzionato. Quindi, ai giovani che mi chiedono come fare pervenire un loro manoscritto al grande editore, io dico di non bruciare le tappe, e iniziare a farsi conoscere tra quelli che, come loro, scrivono, e pubblicano lentamente le loro prime prove. Potrei aggiungere che io, neppure da giovanissimo, ho mai mandato manoscritti a case editrici. Ho aspettato che un editore, leggendomi altrove, mi abbia proposto di fare qualcosa. È passato del tempo, ma ho sempre sostenuto che se sei caporale devi darti da fare per diventare sergente, senza voler diventare generale di un colpo.
Se poi qualcuno dice orgogliosamente che non vuole sottoporsi al giudizio dei suoi pari ma è disponibile solo per il grande editore, e non vuole fare gavette, perché è convinto di avere scritto un capolavoro (e magari è vero) deve anche pagare per il suo legittimo orgoglio, e spesso accontentarsi di avere scritto un capolavoro, anche se gli altri non gli danno retta. Aspetti la riscoperta dei posteri, nella storia è accaduto.
Passiamo alle lettere degli editori. Un editore che non risponde all'invio di un manoscritto (anche se qualche tempo dopo, perché abbiamo visto che, se lo fa leggere, gli ci vuole del tempo) è scortese. Un editore che risponde con la formula solita ("i nostri programmi sono già definiti per due anni"), è un editore per bene, e nessuno può lamentarsi se ha fatto il suo lavoro, che è anche quello di respingere almeno l'ottanta per cento delle proposte che gli arrivano. Quanto alla sua richiesta di ricevere almeno un giudizio sincero come "la sua opera è una schifezza", ho conosciuto redattori editoriali che scrivevano all'autore perché e dove la sua opera non funzionava, invitandoli a rivedere il lavoro, ma di solito ricevevano in cambio lettere di insulti. Una volta è accaduto a me di scrivere almeno tre cartelle di analisi critica per dire a un signore (distinto professionista) perché il suo lavoro non andava bene e cosa avrebbe dovuto fare per migliorarlo, e qualche tempo dopo quel signore mi ha mandato copia di lettera inviata a un celebre brigatista rosso in carcere, dove lo invitava a dire ai suoi compagni a piede libero di punire non solo i loro diretti avversari politici, ma anche i detentori del potere mafioso editoriale (io nella fattispecie). Questo spiega perché è più comodo per l'editore declinare il manoscritto con una lettera cortese senza compromettersi troppo.
Inoltre, se non esiste una editoria di stato, come nei paesi sotto dittatura, una casa editrice è una azienda privata e ha il pieno diritto di pubblicare quello che vuole o che ritiene più redditizio (magari non sempre in termini di denaro, ma anche di prestigio). Se sbagliano, peggio per loro. Editori famosi hanno rifiutato opere, di grande valore letterario o di grande successo commerciale, come Via col vento, Il gattopardo, Il Tamburo di latta, Lolita, e via dicendo, mentre altri sono stati più accorti. Un editore francese, tra l'altro carissimo amico e lettore molto fine, mi ha rifiutato Il Nome della Rosa (per carità, non glielo avevo mandato io, semplicemente lo aveva visto in catalogo dall'editore italiano) dicendomi "la balena è troppo grossa e non può funzionare commercialmente". Invece un suo concorrente l'ha pubblicato, e gli è andata bene. È la vita editoriale.
Ci sarebbe un modo per venire incontro all'autore solitario, evitandogli penose trafile? Forse c'è ma, dal secolo XV, quando è stata inventata la stampa, non è stato trovato. È certo che nei secoli hanno trionfato autori pessimi (ma poi i posteri hanno fatto giustizia), e sono stati lasciati cadere nel nulla autori bravissimi. In letteratura non vale il principio della selezione darwiniana, per cui sopravvivono solo i più forti (ma poi anche lì, perché hanno dovuto scomparire i dinosauri, che erano tanto buoni e simpatici?). Però, se ci voltiamo indietro, ci accorgiamo che tanti autori veramente importanti, che ai loro tempi avevano subito vari ostracismi, ci sono rimasti, e quindi si vede che in questa giungla, sia pure col sacrificio di tanti meritevoli innocenti, la vita è andata avanti in modo ragionevole. E se il vicino di casa di Proust fosse stato tanto più bravo di lui e nessuno se ne fosse accorto. Per lui sarebbe tristissimo, per l'umanità basta Proust, e avanza.
So che con queste mie considerazioni non l'ho consolata. Ma, quando ero studente, un mio giovane maestro aveva fatto una conferenza intitolata "La filosofia non consola", e da quel titolo (anche se non ricordo il contenuto) ho imparato molto. Ci sono due modi di consolare: uno è di dare false illusioni, ed è disonesto; l'altro è di spiegare come vanno le cose a questo mondo, così che gli altri, anche se non intendono adattarsi all'andazzo corrente, sappiano almeno come si può reagire.
UNBERTO ECO


Poeta InAzione
Sig. Luca Della Casa, vedo che qualcuno mette in dubbio il fatto che il professorone dei cortiletti stantii, forforosi "e solforosi"( aggiungerei io) le abbia inviato questa lettera, che lei ha ovviamente trascritto nel suo blog, commettendo il refuso del nome.Io invece mi fido di lei (perché avrebbe dovuto inventare una cosa del genere?), ma per evitare equivoci e illazioni le consiglierei di scansionare o fotografare la lettera di Umberto Eco e allegarla al suo post.
Ma veniamo alla lettera. Alla terribile gavetta, ai dinieghi che ha dovuto subire il professor Eco… all'ostracismo suo!
Ahi, che lettura infelice. Ma necessaria, e dobbiamo ringraziarla tutti, sig. Della Casa, perché è un pezzo che mancava alla nostra raccolta. Vorrei che tutti leggessero questa lettera e la commentassero come si deve, prendendo posizione.
Vorrei che la leggessero gli studenti di Eco, i suoi collaboratori, ma soprattutto i tanti poeti e scrittori italiani che sono costretti a stare nell’ombra perché non hanno angeli protettori nel paradiso editoriale, o dovrei dire demoni, nell’inferno di questo nostro panorama culturale.
Così dicendo io so di dichiarare tutta la mia rabbia e la mia utopia, la quale postula un ostracismo al contrario! L’ostracismo dei professoroni integrati nel sistema e piloti del sistema, degli scrittori che godono delle grazie della politica (Erri De Luca, Baricco, Tabucchi, Camilleri, etc.) e di tutto questo panorama infernale che è la cultura italiana odierna. Oggi in Italia chi scrive senza amici né raccomandazioni, non compromesso ma anzi volutamente estraneo al mondo editoriale delle leccate, delle serate, dei premi, delle rivistine dirette sempre dagli stessi… è necessariamente isolato. Mentre ai tempi della giovinezza di Eco, un poeta come Sandro Penna, completamente solitario,poteva affermarsi anche soltanto inviando i suoi manoscritti. Ed è stato così che Montale lo ha scoperto e lo pubblicato. E come lui molti altri. Ma allora c’erano i Montale, i Pasolini… Oggi invece abbiamo gli Eco.
Il nostro Eco che non ha fatto gavetta, perciò non aiuterà mai un "gavettino". Lui che viene dal mondo accademico e là aveva già i suoi amici, i suoi colleghi, i suoi professori inclini, i suoi editori vicini. 
Ma anche gli editori, negli anni ’60 e ’70, erano molto più seri, coraggiosi, e tenevano al nuovo, al genio, non solo ai classici da stampare e ristampare, magari anche con il gadget in regalo; per il puro denaro, per il controllo sul mondo. Il nostro principe dei cortili stantii non ha dovuto fare alcuna gavetta e non ha dovuto patire questo ostracismo a cui noi scrittori e poeti italiani di oggi siamo costretti.
Certo, da una parte stiamo meglio, perché restiamo nella nostra acqua di alta montagna, sconosciuta e perciò anche limpida. Ma le nostre opere (non solo i testi, ma le nostre stesse azioni di persone) si avviliscono, così non lette e non diffuse. E in special modo se sono opere civili, indirizzate a destinatari vivi e attuali, non astratti o futuri. I nostri apporti alla società vengono arrestati, impediti, e lo dico per un senso più ampio dell'essere scrittori, ben al di là della mera pubblicazione (!). 
Lei lo sa, caro Della Casa, che qualche anno fa ho vinto un premio di poesia ma non l’ho mai ricevuto? Una pubblicazione monografica che non mi hanno mai dato!? 
Ed ho almeno venti lettere di case editrici (anche molto note) che mi fanno proposte editoriali molto sibilline e tutte a pagamento. Ho anche una lettera della Campanotto editore scritta per metà al computer per metà a penna; nella seconda metà nominano il denaro che devo versare.
Denaro che ovviamente non ho mai versato! poiché non ha senso essere riconosciuto come “scrittore pagante”, ma ha senso solo essere riconosciuto come scrittore “meritevole”. Altro che il libro di Mauri, io consiglierei gli Annuari di Giorgio Manacorda!
Prima che il critico militante smettesse di militare, i suoi annuari sullo schifo del mondo editoriale italiano odierno erano una cosa preziosa, almeno quanto i libri di Daniel Estulin sul club Bilderberg e sulla Potenza. 
Lo stesso poeta e critico Giorgio Manacorda fu caldeggiato da Pasolini (vedi "L'io che brucia", raccolta di poesia), che leggeva e aiutava gli scrittori nuovi senza chiedere niente e senza lamentarsi, per puro senso civile e progressista. Qui invece siamo,come dice bene lei, allo stantio, al chiuso dei cortiletti universitari, editoriali e politici. E a proposito di ambienti chiusi ed elitari, sapeva che il sig. Eco è membro dell'Aspen Institute, dove s'incontra con D'Alema, Fini, Tremonti e altri soggetti sporchissimi tra industriali, editori, grandi società private? Tramano “sulfureamente” dietro le nostre spalle, e poi ci danno lezioni di vita.
Ma nel nostro pantano sono implicati anche molti scrittori e poeti primedonne! Ci metterei pure quell’Elio Pecora che va in televisione, pubblicizza la sua rivista Poeti e Poesia - alla quale sono stato invitato anch’io a partecipare (ovviamente pagando una quota) - e non aiuta nessuno a uscire dall’ombra, anzi la conferma.
Qui sarebbe necessaria una riscossa totale da parte nostra.
Perché non formiamo un setta piratesca e andiamo all’arrembaggio del “potere kulturale”, smascherandolo, attaccandolo in ogni modo, denunciandolo anche all’estero?
Solo noi che siamo italiani possiamo, e dobbiamo, prenderlo a schiaffi. Magari possiamo cominciare proprio dando la caccia agli Eco, stanarli dalle università, etc. Io non chiederei loro niente, ma gli opporrei quella che negli anni ’70 si chiamava controcultura.
Non mi dilungo oltre e la saluto invitandola a vedere il mio video I demoni del denaro, in cui c'è anche il nostro sulfureo principe della forfora accademica quale membro della paramassoneria Aspen. E la invito a vedere il mio blog (poetainazione), dove riporto questo suo post, la mia risposta e un volante approfondimento critico su alcuni scrittori e autori italiani.
Un saluto caro a lei che ha pubblicato questo post triste ma importante.

Massimiliano Gusmaroli/Poetainazione




MA COME SI DICE: NON STUZZICARE IL CAN CHE DORME,
ED ECCO CHE IL CANE DENTRO ME E’ STATO NECESSARIAMENTE STUZZICATO!
UN CANE CHE PER LA VERITA’ NON DORME MAI E DOVE PUO’ RACCOGLIE L’OSSO DELL’OCCASIONE, SE QUESTA SERVE A MORDERE IL POTERE DEI SOLITI NOTI.

HO CONTINUATO QUINDI IL MIO CAGNESCO VAGABONDAGGIO SU INTERNET, ZAMPE AFFONDATE NEL PANTANO DEI DOTTI PROFESSORI, DEI DOCENTI UNIVERSITARI-POETI, DEI BRAVI SCRITTORI DA CORTILE (QUELLI CHE DI TANTO IN TANTO ABBAIANO MA NON MORDONO MAI), DEI GIORNALISTI DELL’APPARATO CHE RIEMPIONO LE LIBRERIE, DEGLI STESSI EDITORI-SCRITTORI, DEI POLITICI-NOVELLIERI, DEI CANTANTI-DRAMMATURGHI, DEGLI ATTORI-ROMANZIERI.

VOGLIO QUINDI RIFERIRVI CHE COSA HO TROVATO ANDANDO A ZONZO NELLO SPORCO DELLA CULTURA UFFICIALE.


ECCO QUI:

http://www.corriere.it/cultura/15_febbraio_21/gli-autori-mondadori-rcs-questo-matrimonio-non-s-ha-fare-94f21a8e-b999-11e4-ab78-eaaa5a462975.shtml

L’APPELLO
Gli autori: Mondadori-Rcs questo matrimonio non s’ha da fare


Il documento promosso da alcuni scrittori del marchio Bompiani e sottoscritto da altri autori di case editrici diverse
di Umberto Eco e altri 47 scrittori e autori



Umberto Eco

Pubblichiamo un appello promosso da alcuni scrittori del marchio Bompiani e sottoscritto da altri autori di case editrici diverse. Mercoledì scorso Mondadori ha sottoposto a Rcs MediaGroup una manifestazione di interesse non vincolante per l’acquisizione dell’intera partecipazione detenuta dalla società in Rcs Libri, pari al 99,99% del capitale. Anche il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini giovedì si è chiesto «come funzionerebbero le cose in un Paese con un’unica azienda che controlla la metà del mercato, con l’altra metà frammentata in piccole e piccolissime case editrici».

L’appello

Noi autori della casa editrice Bompiani (insieme ad alcuni amici che pubblicano presso altri editori, intellettuali e artisti) manifestiamo la nostra preoccupazione per il ventilato acquisto della Rcs Libri (che comprende le case editrici Adelphi, Archinto, Bompiani, Fabbri, Rizzoli, Bur, Lizard, Marsilio, Sonzogno) da parte della Mondadori. Pur rispettando l’attività editoriale della casa acquirente ci rendiamo conto che questa fusione darebbe vita a un colosso editoriale che non avrebbe pari in tutta Europa perché dominerebbe il mercato del libro in Italia per il 40 per cento. Un colosso del genere avrebbe enorme potere contrattuale nei confronti degli autori, dominerebbe le librerie, ucciderebbe a poco a poco le piccole case editrici e (risultato marginale ma non del tutto trascurabile) renderebbe ridicolmente prevedibili quelle competizioni che si chiamano premi letterari. Non è un caso che condividano la nostra preoccupazione autori di altre case: questo paventato evento rappresenterebbe una minaccia anche per loro e, a lungo andare, per la libertà di espressione.
Non ci resta che confidare nell’Antitrust.


Gli autori
Roberto Andò, Nanni Balestrini, Sergio Bambarén, Franco Battiato, Tahar Ben Jelloun, Ginevra Bompiani, Pietrangelo Buttafuoco, Rossana Campo, Furio Colombo, Mauro Covacich, Michael Cunningham, Andrea De Carlo, Roberta De Falco, Paolo Di Stefano, Luca Doninelli, Maurizio Ferraris, Mario Fortunato, Fausta Garavini, Enrico Ghezzi, Paolo Giordano, Giulio Giorello, Hanif Kureishi, Raffaele La Capria, Silvana La Spina, Lia Levi, Dacia Maraini, Mario Martone, Michela Marzano, Laura Morante, Carmen Moravia, Edoardo Nesi, Aldo Nove, Nuccio Ordine, Roberto Peregalli, Sergio Claudio Perroni, Aurelio Picca, Thomas Piketty, Lidia Ravera, Antonio Scurati, Amina Sboui, Toni Servillo, Simona Sparaco, Susanna Tamaro, Chiara Valerio, Giorgio Van Straten, Sandro Veronesi, Drenka Willen.

21 febbraio 2015 | 09:41
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COME VEDETE QUESTO APPELLO HA SOLO UN ANNO. FIRMATO DA BEN 47 SCRITTORI E “AUTORI”, COME DICE UMBERTO ECO DAL CORRIERE DELLA SERA (UNO DEI GIORNALI PIU’ MONOPOLISTICI E DI REGIME CHE ESISTONO -VEDI MAPPA ALLA FINE DEL POST *).

LA PAROLA AUTORI E’ INTERESSANTE PERCHE’ DICE TUTTO E NIENTE, E COSI’ OFFRE IL FIANCO AL PENSIERO UNICO RCS-MONDADORI E AI SUOI MOLTI AUTORI E POCHISSIMI SCRITTORI.


MA VEDIAMO CHI SONO I FIRMATARI DELL’APPELLO.



L’appello è firmato per almeno un quinto da attori, registi,cantanti e sceneggiatori-non scrittori:
Roberto Andò (regista, sceneggiatore), Franco Battiato (cantante famoso), Roberta De Falco (sceneggiatrice per cinema e televisione), Mario Martone (regista, sceneggiatore), Laura Morante (attrice famosa), Toni Servillo (attore famoso). Hanif Kureishi è un caso particolare perché lavora come sceneggiatore ma è anche scrittore.

Per un altro quinto abbiamo quegli “autori” cresciuti e dovuti all’ombra della casta politica: Pietrangelo Buttafuoco (politico del MSI, poi di AN, uomo televisivo, etc.), Michela Marzano (politico del PD), Edoardo Nesi (assessore giunta PD, Lista Con Monti per l’Italia), Roberto Peregalli (architetto di Berlusconi).

Vi è poi un altro quinto costituito dagli stessi editori e dai loro giornalisti:
Ginevra Bompiani (figlia dell’editore), Paolo Di Stefano (Corriere del Ticino, La Repubblica) , Luca Doninelli (L’Avvenire, etc.), Mario Fortunato (Rai3, Panorama, etc.), Enrico Ghezzi (Rai3), Paolo Giordano (Il giornale), Sergio Claudio Perroni (agente editoriale), FurioColombo (giornalista, editore, anche politico).

Poi abbiamo una discreta fetta di docenti universitari anche collaboratori di giornali:
Maurizio Ferraris (docente universitario), Fausta Garavini (redattrice rivista Paragone, Nuovi Argomenti, docente universitaria), Giulio Giorello (docente universitario, giornalista del Corriere della sera), Michela Marzano (docente universitaria, politico del PD), Nuccio Ordine (docente universitario, collaboratore del Corriere della sera), Thomas Piketty (docente di economia, collaboratore a Le monde, Libération, etc.), Antonio Scurati (docente universitario, scrittore, collaboratore con il quotidiano La stampa ).

E non potevano mancare le figlie e le mogli d’arte: 
Rossana Campo (anche se non sa scrivere è comunque la moglie di Nanni Balestrini), Carmen Moravia (moglie di Alberto Moravia), Lia Levi (figlia di Primo Levi).

Poi ci sono i “veri scrittori”, o meglio quelli che mi sembrano i più autentici tra questi firmatari. 

Per me autentico significa prima di tutto che lo scrittore è un fiume pulito e indomito, una vera penna (o tastiera) non compromessa e spontanea. Il vero scrittore non scrive per secondi fini (commerciali, faziosi, materiali, etc.) e non scrive in virtù di amicizie, compromessi, ambienti frequentati (cinema, televisione, politica, etc.) o per propria fama (perché è famoso) od eredità, fosse anche per eredità del suo stesso passato di scrittore o altro. 
Il vero, anche se è il più vecchio che esiste, scrive sempre perché è vero e non perché lo è stato, o per un qualche diritto di nascita.

Nanni Balestrini (per quanti danni abbia fatto alla letteratura italiana e quanto sia museale, è comunque un poeta), Sergio Bambarén (è una specie di delfino che non si è piegato alla sporcizia del mare!), Tahar Ben Jelloun (uno scrittore vero e amabile, sebbene sia amato anche dagli editori e dai giornali, e ciò non depone a suo favore), Dacia Maraini (per quanto sia oggi piegata in sé, è scrittrice da tempi non sospetti), Mauro Covacich (anche collaboratore di giornali, è invece scrittore dei tempi sospetti), Michael Cunningham (scrittore su cui non posso esprimermi e pertanto lo metto in questo magro "paradiso"), Andrea De Carlo (uno scrittore scoperto da Fellini, non so altro), Raffaele La Capria (scrittore prolifico ma tentacolare, anche collaboratore con il Corriere della sera e altri giornali), Silvana La Spina (scrittrice ancora da comprendere), Aldo Nove (poeta che fu dei “novissimi”, una vera collaudata ma che non esplode), Aurelio Picca (poeta, attore, scrittore: il suo poema beat “Io sono l’Italia” ha qualche cosa di vero ma solo a comprarlo, per leggerlo è introvabile su internet!), Lidia Ravera (anche lei scrittrice di un'altra epoca, oggi assessore alla cultura della Regione Lazio).
Alcuni di questi nomi sono sicuramente veri, ma non si distinguono dai non veri, perché? 

Perché in qualche modo partecipano a questa Italia mediatica falsa e sporca, e così non scrivono nella verità della letteratura, e cioè di se stessi, ma nella falsità della mistificazione e nella brutalità del monopolio.
Chiara Valerio, ad esempio, è nata scrittrice o redattrice di Nuovi Argomenti?
Sandro Veronesi inizia collaborando con la RAI, fratello dell'altro Veronesi, e anche lui sembra uno scrittore, ma questa sua vena è autentica o aiutata dagli ambienti che frequenta?
Il caso di Drenka Willen sembra in parte rispondere a questa domanda. Siamo di fronte a un grande editor americano, editrice del Washington Post e di altri giornali legati occultamente a delle superpotenze economiche, perciò non mi meraviglierebbe se vincesse venti volte il premio nobel per la letteratura.
Il caso di Amina Sboui, invece, credo sia un puro prodotto mediatico-politico rimbalzato dalla televisione e da facebook alla letteratura, e scommetterei sul fatto che il suo libro "best-seller" non è stato scritto da lei. 

Ma qui siamo al prodotto commerciale crudo, perciò non importa chi lo scrive.
Vi sono poi quelli che sanno “recitare bene scrivendo”, potrei dire.
Simona Sparaco è oggi la versione aggiornata, degenerata e romana della triestina Susanna Tamaro di Va dove ti porta il cuore, ma quest'ultima, al di là dei media che l’hanno affermata e resa mediatica, è anche una scrittrice con cognizione e senso letterario, io credo.
Simona Sparaco invece è solo "brava e bella", sempre che i suoi libri siano suoi, cioè scritti da lei. Ma se così non fosse allora avrebbe speso inutilmente 10.000 ero l'anno studiando "storytelling and performing arts" alla scuola Holden di Torino. Una scuola che insegna a scrivere libri privi di letteratura ma VENDIBILI. Termine che va inteso nell’accezzione della RCS-Mondadori: ovvero: libro = oggetto commerciale.  
Come vedete io le considero già fuse. Fuse di fatto, nel pensiero unico
mediatico-editoriale che i due grandi colossi monopolisti propugnano.
Ed in questo senso l’appello qui sopra appare ridicolo.


MAPPA DEI GIORNALI ITALIANI


Per vedere ingrandita la mappa cliccarci sopra.
Ringrazio questo link :