Diario della morte italiana

Diario della morte italiana

mercoledì 23 novembre 2022

 








Come poeta non cerco nemmeno i poeti,

non mi interessano i Pecora e i din dong paf *;

al M.A.C.R.O  preferisco il micro, gli ignoti.

 

Se posso plano fuori dalle Luci della città **,

al bordo del marciapiede, timido e feroce

angelico e diabolico tra rotaia di tram

 

e bocca di museo, salotto, sala vorace

in cui espone il poeta sperimentale

e vuole pisciarci addosso un loquace

 

petrolio*** che non la smette di parlare. 

Oh, se potessi azzittirlo con versi veri

e letali; versi oltre il mero poetare;

 

versi contro l'estetismo di avantièri

spacciato per novissimo ****; splendenti

contro l'oro falso e buio di questi falsari,

 

che è contro l'uomo e l'uomo lo sente

e perciò s'allontana da queste arti

date come a voler decorare il Niente,

 

a voler non vedere le dolenti città nostre

dove il nichilismo è già dolore eterno

e la perduta gente***** non crede nelle mostre

 

di chi sembra voler decorare l'inferno

e non pare mosso da altro fattore,

né da sapienza né da amore fraterno.******

 

Ed è per questo che io torno allora

alla tradizione, che almeno è grande,

e rifiuto tutta questa borghese cultura

 

e per amor di poesia riuso perfino Dante,*******    

e più che poesia cerco arte di strada:

il vecchio clown beffante, il mimo silente

 

che palpeggia specchi con dita agitate

come su mura di borghesi e pare dirci:

"lasciate ogne speranza, voi ch'intrate".

 





*"Din dong paf" è un per niente ironico rimando alla poesia neoavanguardista e in particolare a Nanni Baslestrini con le sue mostre di parole al MACRO e il suo "infinito film Tristanoil" letteralmente inguardabile, privo di Sapienza e Amore e totalmente deprimente anche per uno come me abituato ai vezzi dell'arte borghese.  

**Riferimento allo stupendo film di Chaplin 

***il petrolio è il "Tristanoil" nominato in prima nota 

****"I Novissimi" fu una raccolta di poesie del Gruppo '63, di cui fecero parte Balestrini, Sanguineti, Giuliani, Umberto Eco e altri.

 *****"città dolente", "dolore etterno", "perduta gente" sono parole della famosa terzina dantesca (la prima del Canto III dell'Inferno)

****** "fattore", "sapienza e amore" sono parole della seconda terzina del Canto III dell'Inferno.

*******Questa mia poesia segue lo schema metrico dantesco delle terzine con rima incatenata ABA BCB CDC, ma non è in endecasillabi, a cui ho preferito versi da quattordici e tredici sillabe più idonei all'ispirazione nonché allo sfogo che mi premevano.








martedì 22 novembre 2022

 






Il caminetto c'è ma è fredda la casa campagnola

e le coperte dormono a strati e i gatti a ciambella,

e c'è una comunicazione sublime non di parola

in cui gli uomini si scoprono animali e verseggiano

e aprono loti di cuore e mostrano una mammella

che solo i gatti vedono e bramano e assaggiano

strappando i vestiti, facendomi a pezzi come madre!

 

Cercano forse in me il latte della sacra fontana?

Forse cercano di mangiare l'amoroso Cristo.

Cercano forse in me un'eucaristia che è tana?

Forse cercano un Graal di sangue, coppa ornata

di Serpentino, Moldavite, Onice e Ametista

quasi come vorrei la mia anima: roccia involata

e cristallina, che se vien fatta a pezzi è più madre!

 

Ma in me c'è solo una fragile ricerca nella ferocia

senza scuse dell'uomo, un verso d'amore felino,

un ultimo tentare la purezza con una lène Fenice

di poesia che è come l'ultimo dispetto di un morto

Dio che mi parla; ed è come la finestra al camino:

basta schiuderla e Lazzaro di fuoco è già risorto

a rimordere il legno, a farlo a pezzi come madre!










giovedì 5 maggio 2022

 





L'importanza dello studio (l'opposto della presunzione) contro il nichilismo

 

Nel '400, nel famoso Rinascimento italiano, lo studio passava attraverso i maestri, depositari del sapere.  I libri ancora non esistevano, così come non esistevano le scuole nel senso moderno del termine. Per un pittore o uno scultore la scuola erano le "botteghe". Nella Grecia antica si studiava all'aperto o in edifici non specifici, trattando materie quali la filosofia e la scienza; e a Roma, chi poteva permetterselo, riceveva lezioni da un maestro che di solito picchiava i suoi allievi, perché allo studio si accompagna l’autorità e la severità, nonché la disciplina e l’impegno. Allievi che appuntavano le lezioni sulle famose tavolette cerate. Diciamo che lo studio è sempre circoscritto entro i limiti del sapere, dell'istituzione scolastica e degli strumenti utili, e dunque è permeato e condizionato dalla società e dalle circostanze umane di quel determinato momento. E in quanto parte di un'organizzazione umana e sociale lo studio è anche una questione famigliare, dato che il giovane figlio viene spinto o tolto allo studio dalla stessa mano dei genitori, e ciò per motivi diversi: fino agli anni ’70 del secolo scorso questi erano imputabili alle condizioni economiche: i contadini e i proletari non potevano permetterselo, oppure avevano bisogno dei figli per lavorare la terra e via dicendo. 

Dopo la scolarizzazione di massa, anni '70, avanzando nel tunnel consumista "i figli" hanno rinunciato allo studio, pur potendo permetterselo, finché, con l’avvento dell’”ignoranza presuntuosa”, come la chiamo io, hanno addirittura iniziato a deridere gli studiosi (i secchioni), a studiare coi Bignami, "in pillole", a vantarsi dei voti bassi e a schernire i docenti. Una umanità del genere, prodotta da una società perversamente consumista in cui si è ormai dato per compiuto il crollo (non la fine totale, beninteso) dell'umanesimo e dell'illuminismo, ha infine svoltato culturalmente per una società non solo reduce di questo genocidio ma fondata sempre più sulla "disumanizzazione", come fu definita, e sulla malattia mentale dei potenti, dico io, dunque fortemente antisociale e anticulturale, dove il valore dello studio così come quello del progresso (valori umanistici e illuministici, appunto) sono stati allegramente soppiantati dalla deriva attuale in nome della "libertà" e della "realizzazione", della "fama" e del "denaro", ma anche in nome del nulla, se così possiamo dire. Un nulla che non è solo un Nihil filosofico, codificato, ma un valore non scritto, una specie di acido invisibile. Un valore che si esprime sia perfettamente nel corollario di dis-valori detti poc'anzi sia per se stesso come acido, la cui presenza è essenziale ed effusa in gran parte delle attività umane istituite, ma anche nelle vite delle persone. "I valori sono morti e dunque siamo liberissimi di fare e dire quel che cazzo vogliamo!!" potrebbe essere il motto di questo particolare, volgare, abietto nichilismo, o post-nichilismo, che oggi è alla base della nostra vita e non solo del liberismo economico. Ma per fare due esempi concreti e noti in Italia di ciò che intendo per nichilismo effuso potrei riportare alcune frasi di due canzonette che vanno per la maggiore, anche premiate, che fanno cantare e ballare allegramente gli italiani di oggi: 

1)

"Come stai bambina?
Dove vai stasera?  
Che paura intorno  
E' la fine del mondo  
Sopra la rovina sono la regina  
(...) 
La fine del mondo è una giostra perfetta 
Mi scoppia nel cuore la voglia di festa  
(...)
Mentre leggo uno stupido giornale
In città è scoppiata la guerra mondiale
E con le mani, con le mani, con le mani
Ciao ciao
E con i piedi, con i piedi, con i piedi
Ciao ciao"

 2) 

"Da quando la gente non si trova più
Ci siamo bastati
Da quando il fuoco non brucia più
Siamo disorientati
Da quando Archimede non Eureka più
Siamo affondati
Da quando la ruota non è girata più
Siamo quadrati, siamo quadrati

Guarda lo tsunami che travolge la città
Dentro la mia testa calma piatta
Guarda lo tsunami che travolge la città
Mentre tutto intorno affonda qui si balla, qui si balla
Cha, cha, cha
Cha, cha, cha"

Ovviamente insieme con questi valori sono svenuti anche tutti gli altri valori, principi e riferimenti, che non sono solo quelli istituiti (Dio, patria, famiglia, ecc.) ma sono tutti quei valori umanistici intimi e diffusi che non attengono al progresso e allo studio quanto ai rapporti tra le persone e alla religiosità. Il rispetto, l'onestà, l'umiltà, la bontà, l'amore, la pietà, la gentilezza, ecc. , tutti valori e intimi agganci umani e sociali che nessuno ha mai analizzato come si dovrebbe, ché ad analizzarli dovremmo scorporarli e suddividerli e gerarchizzarli a loro volta in centinaia di sfumature e valoretti squisiti, tutta una rete psicologica e cordiale tra gli umani restati umani. Ma il distacco, il sarcasmo e l'ironia ampiamente espressi oggi da questa borghesia che si dice "regina della rovina" e "disorientata", in fondo così felice di essersi liberata dall'impegno dei mille valori etici e morali, non permetteranno a questa borghesia piccina di svolgere la necessaria analisi di sé, perché il fine non è la coscienza, che è drammatica, ma è il ballo di massa, "cha cha", l'edonismo, il nichilismo divertito: una filosofia del nulla che impedisce qualsiasi coscienza e qualsiasi riappropriazione etica e morale, qualsiasi cultura.  

Ovviamente, le condizioni che portano allo studio e alla cultura, sono tutte interne alla vecchia società  tradizionale (sopravvivente in Italia fino al boom economico), che con palese semplicismo definiamo umanistico-illuministica; la quale, dagli anni '60 in poi è stata man mano soppiantata dalla nuova cultura portata dal nuovo capitalismo, artefice della devastazione umana che abbiamo di fronte a noi oggi e che è intellettuale, morale e persino fisica. Il nuovo capitalista degli anni '90, già padrone dell'aberrazione consumista e dei suoi effetti sull'Uomo reificato, che in trent'anni di merci è stato adeguatamente reificato - ormai davvero ridotto a una "moralità da schiavo" di matrice nietzschiana ma fatta propria e rilanciata effusamente dal nichilismo capitalista (!) - , ebbene, con la globalizzazione degli anni '90 questo capitalista rafforza e magnifica tutte le sue posizioni di dominio sul mondo (la propria ricchezza, il proprio potere, i propri mass media, i propri magistrati, le proprie spie, le proprie merci, le proprie caste, le proprie sette, ecc.) e, avendo ormai superato certi scrupoli (forse ne restano ancora?), come dando vita a un nuovo corso del consumismo, tanto stabilito a tavolino quanto caotico, inizia a contemplare come prototipo di consumatore un Uomo sempre più ignorante, feroce, tossico e violento. Diciamo che se tutte le donne fossero pronte a farsi indurre alla prostituzione, questo sarebbe un traguardo per il capitalismo del 2000. Le amichette di Berlusconi lo dimostrano, così come tutto il mondo televisivo italiano. E di certo un uomo disonesto è meglio di un uomo onesto, se visto nell'ottica criminale di questo capitalismo disonesto e criminale. In questo senso io credo che il neonazista attuale, presente ovunque ormai nell'Occidente sviluppato, non sia un figlio della nostalgia ma un prodotto fabbricato e confezionato da questo potere moderno e crescente. Un Uomo confezionato apposta per degli scopi precisi che non coincidono solo con la conservazione del potere e del consumismo, ma con il nuovo avvento di Zaratustra. Sta di fatto che il consumista di oggi è, anche nella più dolce e onesta versione d'uomo medio, una base perfetta per un Nuovo Ordine Mondiale. Solo la recente invasione dell'Ucraina da parte della Russia potrebbe modificare certi assetti di potere, ma chi vive in Occidente sarà ancora per molto tempo un predicato di McDonald, per dirla con una sineddoche. 

La coincidenza del nuovo consumatore col potere è sicuramente un effetto evolutivo del vecchio consumatore assuefatto, dove l'assuefazione era solo una germinale forma di complicità. Oggi molti italiani accettano e seguono una televisione orrenda, ingoiano cibi e bevande sintetici, lasciano i paesi per ammassarsi nelle metropoli come ratti, usano le carte di credito anche per pagare dieci centesimi, ecc., e lo fanno come una milizia massmediatico-bancaria più che zelante, cieca. Sembra quasi di osservare una milizia di Satana all'opera. Donne e uomini che si dispongono a ricevere, prima o poi, il marchio della bestia, o più semplicemente che si dispongono a farsi piegare secondo le volontà del potere. Se ci guardiamo intorno non possiamo che essere spaventati nel vedere o nell'intuire tale potenzialità: questo mostro umano-disumano al posto del brutto consumatore tipico, che era comunque pur sempre l’onesto padre di famiglia, il lavoratore ancora un po' umano, religioso anche se ateo; in cui sì, scemavano quei riferimenti culturali, quei valori e valoretti umanistici che dicevamo prima, ma pur tuttavia erano presenti, come dei ganci a cui potevamo aggrapparci. Ebbene, nella Roma di oggi come nelle grandi metropoli occidentali, io vedo compiersi una specie di uomo nichilista, o post-nichilista, soggetto-oggetto di una moralità da schiavo, o da reificato, e questa moralità non è altro che la moralità del potere, con la sua cattiveria più spietata. Questa essenza è chiaramente visibile nei giovani, in certi giovani romani in cui le vecchie culture appaiono morte. Nella loro debolezza e nella loro forza, io vedo questo marchio. Ma qui non vogliamo fare della antropologia, che lascio agli addetti, piuttosto mi interessa una riflessione per linee generali sul valore fondamentale dello studio come base della cultura di ieri e di oggi e con uno sguardo al domani, dato che soltanto la cultura, io credo, serba ancora la capacità di rispondere a questa deriva profondamente distruttiva. Ma qualsiasi risposta colta è possibile solo con lo studio. 

Io non ho sufficienti strumenti culturali per trattare i campi che esulano dall'arte e pertanto svolgerò le mie considerazioni riferendomi al campo artistico, che è mio d'elezione. E' probabile però che certe considerazioni possano servire anche agli addetti di campi diversi dal mio, data l'ecumenicità di quel pilastro comune che chiamiamo "studio". La perdita di valore dello studio è sicuramente un dato culturale portato da una specifica volontà del potere a renderci ignoranti, la quale si attua in molti modi e di certo rovinando la scuola, lo stato sociale e il mondo del lavoro. Quest'ultimo, reso precario e individualista, ha condotto (ma non obbligato!) le persone colpite dalla precarietà e dall'autonomia individualista a non avere neanche più il tempo di leggere, svilendo lo spirito per la materia. Con la distruzione della famiglia e con la messa in crisi dell'autorità, i figli vivono i genitori come dei dischi rotti. Il genitore che si impone è fuori luogo, esso deve decadere al ruolo di amico, per essere meglio superato con il distacco e il sarcasmo. Ma il figlio che non legge e non studia non si farà mai educare da un genitore simile. Questo paradosso riguarda ogni forma di autorità, e dato che lo studio è sempre una questione di autorità imposta sulla gioventù, ogni istituzione formativa e scolastica, famiglia compresa, è sempre più spesso luogo di svilimento della lettura e dello studio.  E tutto ciò accade in un contesto sociale e culturale che svilisce già da molto tempo il libro e il sapere, dove la tecnologia e la sua relativa cultura, che è fredda, tecnica e materialistica, sono un colpo fatale a quello spirito di conoscenza "dolce" che anima lo studio, e ciò nonostante gli ebook e il lato più colto di internet. Ma il superamento del valore della "cultura" è un problema complesso, soprattutto quando sono gli stessi soggetti colti (una volta definiti "intellettuali") a non vedere il problema o a non volerlo vedere, attuando così tutta una serie di compromessi, ambiguità e vere complicità che complicano e aggravano il problema. Ma su questi mi esprimerò in seguito. 

Insomma, sono moltissimi i fattori pratici e culturali che hanno sostituito la terra dello studio, il clima dello studio (quel clima in cui si formavano e si formano gli uomini di cultura, pur mediocri o grandi, non è un giudizio di valore che ci interessa) con il suo opposto: un clima di aridità o calma piatta, oppure fertile solo all’idolatria materialista ed edonista, all'ideologia specifica e funzionale del potere economico-politico, dove il caos, il disimpegno, la violenza, la stupidità, l'obbedienza, e soprattutto la trasgressione, ben istruite e guidate da un atteggiamento filosofico e irrazionale nichilista, non giocano certo a favore della cultura. Ma questi che ho citato non sono solo degli atteggiamenti, bensì dei nuovi valori. Si oppone, quindi, alla terra della cultura, una terra di nuovi valori, e questo, a mio avviso, è il punto duro del problema. Non siamo in un periodo storico transitorio, opaco, caotico, no, non siamo negli anni '60, quando il neocapitalismo aveva appena compiuto il suo palingenetico "boom" e l'uomo e la società stavano cominciando a cambiare, ma siamo in un periodo storico che ormai dura da più di mezzo secolo in cui le forze motrici di questa palingenesi si sono finora sviluppate coerentemente con la linea capitalistica inaugurata, e con un'organizzazione ben precisa che dagli anni '50 sta continuando a consolidarsi (vedi il club Bilderberg). Le dittature storiche non avevano i mezzi di propaganda che sono oggi in mano a questi dittatori democratici seguaci di Licio Gelli, che fu teorico di un fascismo ben peggiore. La propaganda ci forza a stare al passo con questi sempre nuovi valori del potere, e in buona misura ci impone di apprezzarli e sposarli, di ingoiarli come l'ostia; ma siamo noi a decidere se sia questo o no il nuovo corpo di Cristo, se sia il dio Nihil la nuova devozione di questo Occidente oppure no. Il nichilismo è sicuramente una sorta di Dio, se è vero che l'originario politeismo dell'uomo non è mai tramontato ma si è "reincarnato", tanto per semplificare Jung ed Eliade). Lo paragonerei al più feticistico degli dei, questo Niente, almeno a giudicare da come gli occhi dei filosofi nichilisti o anche dei piccoli seguaci diffusi brillano di adorazione nell'esprimerlo, e da come la loro ironia, tipicamente negativa, sia forgiata con cura ( basta vedere anche la più breve intervista a Cioran). 

Il nichilismo in filosofia sappiamo essere un prodotto recente. In "Padri e figli" (anno 1860, se non sbaglio) Turgenev non ha nessuna intenzione di discutere la teoria, né di avallare questa sorta di disgrazia che separa i padri dai figli, anzi: lui è il padre, il russo vecchia maniera, mentre il figlio, in quanto nichilista, viene definito "materialista disillluso". Il nichilismo viene reso dal romanzo realista nel suo essere reale, conflitto generazionale esistente, idea nuova, rivoluzionaria e giovane espressa da alcuni giovani russi. Nietzsche, vent'anni dopo, incurante del problema morale, compie l'atto di porre il nichilismo sul piano speculativo quasi come un messaggio sublime e lo porta a conseguenze teoriche e ideologiche estreme, da estremista qual era. Ma il nichilismo di oggi è ciò che di questa idea ottocentesca materialista e disillusa è resistito all'olocausto: un mostro che non solo non è stato condannato e abbandonato insieme a Nietzsche ma che si è sviluppato nella filosofia economica capitalista, nella filosofia accademica e, a livello popolare, nella cultura effusa del consumismo. Dopo Lyotard, qui da noi è stato addomesticato e rilanciato nei fatti della generazione degli intellettuali post-modernisti, cosiddetti, degli anni ’80 e ’90 : Vattimo, Eco, Cacciari, tanto per citarne alcuni, che erano i nostri accademici più mediaticamente in risalto, qualcuno di loro anche con velleità da intellettuale nel senso gramsciano del termine. Tuttavia, molti di questi professori si sono nel tempo ricreduti, in primis proprio Gianni Vattimo, che ha preso le distanze dalle sue teorie sul "Pensiero debole". Ma una ritrattazione simile ha abbracciato dal 2000 in poi tutti i campi salienti della società: alcuni economisti ultra-capitalisti, per esempio, sono tornati all'idea di Stato, così come tutta una serie di operatori del mercato hanno denunciato, anche schifati, il loro precedente operato; penso al pubblicitario Frédéric Beigbeder, uomo che non ancora resta imbrigliato nel proprio nichilismo edonistico pur dicendosene "disturbato". John Perkins invece è riuscito ad abiurare perfettamente, e se può riuscirci un sicario economico allora possono farlo anche giornalisti e politici, scienziati e artisti e la massa : i consumisti, ovvero tutte le vittime di quel nichilismo effuso che la cultura dominante ha inoculato con tutti i suoi poteri: il bruto consumismo insito nelle cose, la propaganda, parte della cultura accademica (per i più colti), parte degli artisti, ecc. Per quanto riguarda la massa che nel tempo ha ricevuto questo diktat, sono oggi milioni gli epigoni del nichilismo effuso, quelli che ne sono portatori sani e inconsapevoli, e quando una gran fetta di queste persone dovesse prenderne coscienza allora la nostra società farebbe un gran salto in avanti, ma sulla base della riappropriazione del passato. Io credo, infatti,che i figli non possono superare i padri negandoli o distruggendoli, e nemmeno negando e distruggendo se stessi, ma solo rinnovando il vecchio. Soltanto conoscendo perfettamente la storia (il passato) potrebbero ridare un corso storico all'Uomo (il presente e il futuro). Al momento l'Uomo occidentale brancola nel buio dell'oblio voluto dal potere (nuovo oscurantismo) e della negazione morale e concettuale di tutto (anche questa in buona parte voluta dal potere). Per fare un esempio concreto basta prendere gli artisti più nichilisti del momento, da Lars Von Trier all'ultimo movimento cinematografico francese (che dura ormai da vent'anni), denominato The french estremism. "Dans ma peau" è uno dei primi film di questo filone, di cui non ricordo l'autore ma ben ricordo il tema centrale del cannibalismo. Si tratta di un brutto film horror dove la protagonista divora anche se stessa in un bagno di sangue. A questo affiancherei "A l'interieur", dato che nella mia mente emerge a fianco del primo, i cui registi sono una coppia gay che nel tempo si è armata di strumenti tecnici perfetti, ma per ricavarne un genere splatter che sfrutta il tema del sesso. "Frontière(s)", di Xavier Gens, è anch'esso un horror splatter ma che insieme con la violenza estrema usa anche il nazismo, che è un tasto inedito per il genere horror e sta proprio a dimostrare che tutto fa brodo pur di fare film "totali" "carichi di emozioni", come dice la raffinatissima critica di oggi. "Martyrs" di Pascal Laugier è un altro horror molto all'americana che non sono riuscito a vedere fino alla fine. Per ultimo mi viene in mente "Alleluia" di una certa Welz, sempre francese, che non riesco a ricordare perché le scene di violenza la mia mente le rimuove. Abbiamo poi Gaspar Noé, come non menzionarlo; di lui non vorrei ma ricordo "Irréversible", o meglio solo quella scena del film in cui un poveraccio subisce un estintore in faccia per un quarto d'ora. E' l'ennesimo film dove la violenza è tutto, ma senza significare nulla. Ho notato, vedendo i tributi a Noé su internet, che i ricordi del pubblico riguardano in genere la scena dello stupro dell'attrice Bellucci, e questo la dice lunga. Complessivamente si tratta di un film privo di senso dove la concatenazione di eventi violentissimi, che noi come pubblico conosciamo già e viviamo tornando indietro nel tempo, dunque provando angoscia da prima che accadano, dovrebbe essere il tema portante.  Ma questa cronologia al contrario, benché sia un'idea originale, non è per niente un'idea o un tema interessante, tant'è che dopo i primi venti minuti sappiamo già tutto e ci ritroviamo quindi a subire la recitazione della Bellucci e tutta l'insignificanza del film. Film che ben si può riportare a un gusto splatter che del cinema d'arte è la pura negazione. "Enter the void", dello stesso autore, al di là del fascino della città di Tokyo è un film che può piacere a degli adolescenti dediti alle droghe o a dei tecnicisti del cinema. Da una parte è un pappone basato sulle emozioni (le droghe, l'amore, la morte), dall'altra su degli effetti speciali cromatici e audiovisivi, anche resi con la solita soggettiva ma ancor più totalizzante. Il film è una vera trappola mistificatrice: la trappola dell'immedesimazione totale fine a se stessa. Il film "Climax", sempre di Noé, è già tutto nel titolo, e qui si esaurisce; ma almeno il regista ci rivela i libri e i film (inquadrati dalla macchina da presa) che compongono la sua cultura (scarsissima): Cioran, Nietzsche, Suspiria di Argento ecc. Siamo dunque in pieno nichilismo, dove la "mancanza di prospettive" determina automaticamente tutta l'insufficienza della visione del mondo e la stessa misera qualità dell'arte che dovrebbe rendere tale visione interessante, tanto da proporla al pubblico. La scelta tecnica è, di nuovo, la"totalità", e capiamo così che sul piano ideale (l'ideologia che presiede a ogni film) è il solo modo per sopperire al vuoto culturale e alla mancanza di prospettive dell'artista in sé. D'altronde, senza una visione e senza una morale un regista non può che affidarsi al gioco di macchina, alle luci, agli attori, ai loro corpi, alle emozioni immediate. L'obiettivo è chiaramente quello di colpire il pubblico con certi artifici, di farlo indignare con l'immoralità, o di compiacerne l'immoralità. Anche qui c'è la droga(tema caro al tossico Noé): le ballerine sono drogate ecc. Ed è così che tutto un film che sembrerebbe sulla danza, la quale all'inizio ci attrae, ci stupisce e ci esalta, in realtà è sul nulla, sul senso di claustrofobia che deriva dalla mancanza di prospettive, sul nichilismo - in cui la danza viene negata, asfissiata. 

Questo cinema francese è forse uno dei fenomeni sociali più interessanti degli ultimi anni, ma non sul piano della dialettica cinematografica (arte, progresso del cinema, linguaggio, poetica) bensì soltanto sul piano sociologico, ovvero per il suo essere corrispondente a una tremenda deriva di quella che un tempo fu una borghesia illuminata, madre dell'illuminismo, socialista, antifascista, moderna e modernista, umanista nel senso più brillante e sincero del termine (Moliere, Voltaire, Balzac, Hugo, tutto il naturalismo letterario dei Maupassant e Zola, tutto l'impressionismo e la pittura della Parigi del primo '900 e del dopoguerra). Questa generazione di film horror francesi, così si potrebbe definire invece che con il termine vago di "estremismo", che muovono proprio dall'horror-splatter americano (vedi la serie "Saw"), è forse l'ultimo strascico del post-modernismo nel cinema; ovviamente insieme al filone "noir", al tarantinismo e al decrepito Von Trier.  Vi è una critica rozza che applaude questo cinema detto "sperimentale"(ma horror e splatter non sono certo sperimentali!) , e vi è anche la complicità della televisione francese come Canal + e altri produttori francesi. Queste produzioni alimentano generazioni di cineasti e tutta una generazione popolare che sicuramente può cadere nella trappola sul breve periodo, ma sul lungo sicuramente si ritorcerà contro la mano che la nutre, e lo farà con la violenza immorale e altamente distruttiva che potrà derivarne. Prevedo in questo senso un assalto dei giovani, ma non quelli delle periferie parigine, bensì quelli più integrati e istruiti, stanchi di una società immorale che specula sulla distruzione dell'uomo e della conoscenza umana; un "pubblico" che non sarà più interessato allo sperimentalismo sulla violenza estrema, che questo cinema sancisce come valore (confermando così la società), ma che con ansia di pace e non violenza, e quindi di cultura, cercherà nuove forme di cinema più corrispondenti ai nuovi valori sentiti e necessari. Quello stesso popolo che ancora oggi esiste e viene osservato e riproposto dal sociale e realista cinema francese contemporaneo dei Guediguian, ad esempio, ma anche da altri registi. 

Qui ho menzionato solo alcuni film di questo movimento estremistico, ossia quelli che ho visto o ricordavo meglio, ma ve ne sono tantissimi altri di film simili o appartenenti a generi similari che spaziano dal noir al poliziesco alle fiction televisive. Film molto cinici, se non deliberatamente nichilisti, che fanno impallidire i nostri Ciprì e Maresco. In realtà i due registi italiani non sono dei veri nichilisti, o potremmo definire al massimo "nichilisti veristi". Non hanno nulla di violento né di decadente, la loro posizione morale non è nichilista in quanto si rifanno alla tradizione. In questo senso non solo non sono dei pazzi tossici ma anzi li vedo come figli elettivi di Giovanni Verga, con tanto di legame morale con i padri, da cui pure si dissociano. 

Il cosiddetto "noir", appena nominato, è un altro genere di stampo nichilista. Cugino dell'horror ma con una sua falsa etica democratica e politicamente corretta, i suoi film sono uno più inguardabile dell'altro! Si manipolano fatti di cronaca come la vendetta, il poliziotto che si trasforma in assassino, il debole che per un attimo diventa feroce, la corruzione che serpeggia in qualche ambiente ecc. Stiamo parlando ancora del cinema francese contemporaneo, e sempre di un genere con una matrice statunitense. Il noir, ad esempio, si basa sull'idea dell'antieroe, ma nell'ipocrisia generale in realtà l'antieroe è un altro tipo di eroe. Un eroe che soffre, ma è capace di far soffrire gli altri come nessuno. Se la più totale mancanza di pietà fa parte dell'estremismo suddetto, qui la mancanza di pietà è mascherata da una più politica, o smussata ideologia di fondo, quella che rende i personaggi un po' più veri, più umili, più quotidiani. Il violento del filone estremistico francese è un tipo più infantile e anarchico, mentre quello del noir è più adulto e integrato. E' la violenza del piccolo-borghese. Si potrebbe di che i due filoni, l'estremismo e il noir, rappresentano due cittadini francesi (occidentali) diversi, sebbene membri dello stesso ceto sociale. Questa deriva del cinema e della borghesia che la produce è e vuole essere sostanzialmente immorale e negativa. Leggevo una recensione di "Enter the void"(Noé) e il critico usava il termine "decostruire". Non so se lo usasse con cognizione di causa, ovvero citando il filosofo decostruttivista Derrida, ma comunque il termine nichilista veniva usato. Lì ho avuto una lampante conferma alla mia analisi. 

Il problema è che qui siamo di fronte a una cinematografia che non solo non permette agli artisti di prendere le distanze dal potere dominante, ovvero nel senso dell'abiura che abbiamo detto sopra, ma che per forza di cose (critica di parte, propaganda voluta dal potere politico e dal potere mass mediatico) sposta l'arte del cinema dentro l'ambiente culturale del potere, producendo un rapporto di connivenza tra arte e potere. Ricordiamoci che è stato il potere a usare la violenza immorale e il sesso pornografico per i suoi fini. Lontanissima da tutto questo, ad esempio, è l'esperienza dell'ultimo Pasolini, il quale usò la disumanità del potere (la Repubblica di Salò) per dimostrare quale abominio sia essa in sé e per sé. Fu quindi un'operazione idealmente del tutto opposta alla banalizzazione di Salò che questi cineasti usano come pretesto. E anche da questa mancanza di una cultura profonda si nota come questi cineasti cerchino un parallelo con Pasolini (vero intellettuale) non con vera intenzione intellettuale ma con vaghezza e ignoranza intellettualistiche. Probabilmente alcuni di loro neanche se ne rendono conto, proprio perché la loro ignoranza non permette loro di aver coscienza di ciò che essi sono. Ma di certo alcuni di loro sanno di operare in direzione opposta a Pasolini, ossia non nella coscienza e nell'impegno ma addirittura contro l'Intelligenza, che è la base di ogni coscienza e impegno. Alcuni sanno di operare all'arte solo per esprimere il proprio nulla. Come se questo nulla personale fosse nelle cose. L'avanguardia storica dell'espressionismo (Die bruke, The blauer reiter) ha inserito per la prima volta nell'arte l'elemento della personale aggressività dell'artista, tant'è che le tele si sono riempite di tinte scure e pennellate di nero, ma mai quegli espressionisti hanno negato moralmente la pittura e l'Uomo. "Immorali e inespressi oppure esprimersi e morire?" diceva Pasolini in Empirismo eretico (cito a memoria), e vi invito a riflettere su questo punto di vista, che mi sembra capitale. In altri termini: con una poesia illeggibile il poeta avanguardista non esprime nulla. Con una tela tutta blu o tutta strappata un artista post-modernista non esprime nulla. Con un film giocato solo sul piano dello shock un cineasta non esprime nulla. Potrebbe essere orientato solo dal senso estetico, ma sarebbe una riduzione inqualificabile dell'arte e dell'uomo. E' sempre il piano dell'espressione umana che ci deve interessare con priorità  su ogni altro aspetto. E' probabile che questi registi vogliano dirci soltanto che il mondo è brutto, l'uomo fa schifo, l'oblio è divertente, la morale non esiste e Dio è morto. Ma allora che senso ha, risponderei io, fare dei film o dipingere grandi tele se non c'è nulla da rappresentare. Parlare di quel Nulla che l'artista sente come chiave di ogni cosa vissuta, ammesso che questa sia la visione e l'intenzione dell'artista, non è già un tentativo che dimostra il contrario? E cioè che l'uomo non può amare la violenza estrema, proprio perché è nulla. E seppure questo nichilismo, con tutta la sua aggressività repressa e sfogata, fosse una forma di neo-espressionismo post-moderno, siamo sicuri che tali prodotti artistici non siano essi stessi un decreto di morte delle cose, o una violenza che non esisterebbe nelle cose se non fosse questo uomo nichilista a concepirla? Del resto siamo noi che in un bel giorno di sole vediamo il mondo nero e siamo pronti a giurare che il sole non c'è. Per i depressi questa sensazione è routine. E allora torniamo alla domanda principe: esiste il nulla fuori dal nichilismo? Io sono convinto che non esiste e che ogni prodotto nichilistico sia paralogistico e superfetativo. Oppure è un prodotto speculare a una mente depressa. E' la stessa depressione clinica dell'artista e la sua incoscienza politica a decretare l'esistenza del Nulla.                                                Per giunta credo che questa posizione morale e filosofica dell'artista sia socialmente deleteria. E questo è il punto della faccenda che più mi sta a cuore.                                                                                        Rossellini disse: "il neorealismo per me è soprattutto una posizione morale da cui guardare il mondo, poi diventa una questione estetica." La frase mi sembra una dichiarazione di guerra, anche se la parola "estetica" ormai mi è molto antipatica, dato l'uso che se ne fa oggi, e avrei preferito che Rossellini avesse detto "artistica"o "linguistica", o magari "poetica", come si usava dire una volta. Con estetico, infatti, spesso si comprende il linguistico, il poetico e l'insieme degli aspetti compositivi artistici, ma io trovo che sia un brutto e anacronistico retaggio del crocianesimo.                                                              E mentre una porzione di Occidente oggi abiura e prende le distanze dal proprio essere immorale e negativo, come abbiamo visto fare dall'hitman e dal pubblicitario, molti artisti continuano invece impassibili nella loro esaltazione della rovina, e anche questo sta a dimostrare, credo, in quale stato di coma e di malattia versi oggi l'arte, così tremendamente succube e, infine, così complice nel rappresentare il fronte unitario capitalismo-consumismo-individualismo-nichilismo. Dopo il massacro compiuto dal massone neonazista Breivik, il quale si disse ispirato dal film Dogville di Lars Von Trier, quest'ultimo, il regista norvegese, connazionale di Breivik, a malapena si dissociò dal suo film Dogville e ancora oggi egli insiste nel proprio amato nichilismo. E vi si atteggia come se non fosse una persona notoriamente depressa quale invece è, ovvero come un sordo che sulla propria sordità basa i suoi giudizi sulla musica. Inutile dire che si rende zimbello di una contraddizione in termini. E non è un caso che Von Trier sia anche il proprietario di una casa di produzione pornografica. Anche questa è una conferma alla mia tesi sul nichilismo contemporaneo dominante.                                                                            Questo nichilismo potremmo dividerlo in tre categorie: decisionale (il potere), rappresentativo (la cultura) ed effuso (la massa), ma nel caso di Von Trier la prima e la seconda si fondono.                          Il nichilismo contemporaneo, tuttavia, è sempre parte dell'ideologia dominante quanto della filosofia dei "dominati", ed è proprio questo aspetto di effusione a tutti i livelli a renderlo molto duro, feroce, cieco, impietoso. Al confronto i giochetti di Cioran sono piroette da menestrello.                                          Eppure non dobbiamo essere troppo sicuri di questa verità. Chi lo fosse, sarebbe un altro contagiato del nichilismo. Dobbiamo cioè essere realisti e non pessimisti: siamo oggi davanti a un mondo che non sta solo cantando e ballando sullo sfacelo, come avvenne per il Titanic, ma sta agendo anche contro tale sfacelo. L'ambientalismo, per esempio, è un segno degli ultimi decenni, non esisteva negli anni '60; e accanto a questo metterei oggi quel prete che denuncia gli abusi sessuali del clero; e quel massone che denuncia la massoneria. Accanto a questi ve ne sono tanti altri simili, che no sto a menzionare, e che sono tutti avvenimenti alquanto nuovi, o perlomeno nuova è la volontà di renderli noti e anche plateali. E spesso tale pubblicità avviene tramite i libri, in cui questi fatti sono denunciati. Sono molti i libri di denuncia che vengono editi oggi, con l'evidente obiettivo della conoscenza e della coscienza. Ma non sarà anche che vengono scritti per un bisogno di tornare alla scrittura come ordine contro il caos? Lascio a voi questo spunto riflessivo. E' comunque assodato che per contrastare la deriva politica, economica e morale di un dato momento il libro è stato storicamente lo strumento più usato. E alla base del libro accusatorio c'è sempre lo studio. Senza uno studio approfondito su nomi, fatti e circostanze non sarebbe possibile produrre l'accusa. Lo studio è dunque sempre anche un fatto di coscienza, come l'ignoranza è sempre sinonimo di incoscienza. Ma quando parlo di studio parlo di una cosa ormai quasi perduta del tutto, sepolta con l'umanesimo. I nuovi laureati sono spesso dei tecnici, non degli umanisti, e i professori che sfilano in TV sono sempre più spesso prezzolati, corrotti, servi del potere, complici dell'ignoranza o loro stessi una nuova forma di ignoranza non ancora nominata. 

Nella storia lo studio ha rappresentato anche una questione di crescita umana e sociale: quanti contadini e quanti operai hanno sognato per i loro figli una vita di studio, una vita intellettuale che riscattasse quella “bestiale” della fatica corporea e manuale. Nei primi anni del Novecento in Europa si sono formati notevoli scienziati e artisti, ma la generazione nata nel primo trentennio ha portato presto l'Italia, e non solo, a un suo secondo Rinascimento, o almeno io lo definisco così. I nostri più grandi poeti, dopo la triade ottocentesca, sono nati nei primi decenni del '900 e si sono pienamente espressi, quindi,  negli anni '50 e '60; e con loro i nostri ultimi intellettuali, i nostri ultimi grandi pittori e scultori, i nostri cineasti più grandi e, anzi, eccezionali! Ma con la ventata nichilistica in arte (insignificanza, finzione, sensazionalismo, svilimento e distruzione della tradizione, opposizione al neorealismo, ecc.) tutto è cambiato. Pur tuttavia, la nostra neo-avanguardia detta "Gruppo '63" col suo brutto, insulso sperimentalismo (a cui a mio avviso fa eccezione solo Elio Pagliarani) non ha potuto incrinare il cristallo di questo secondo Rinascimento più tradizionalista ma anche più sano, ricco del portato della Resistenza, di Marx e della civiltà preindustriale; ma anche ricco di una cultura di base solidissima, forgiata con quello studio difficile - classico o no, autodidatta o no (es. Sandro Penna) - che non ha niente a che vedere con la “logica dei crediti” e con le crocette sulle caselle dell'attuale sistema di studio detto "Bologna", a cui accennerò fra un secondo. Insomma: proprio come l'avanguardia del Futurismo, anche il Gruppo '63 si pose come il nuovo contro il vecchio (il loro libro di presentazione ha per titolo "I Novissimi"), contro gli "schemi letterari costituiti" e come un movimento che muoveva da Marx (proprio come Marinetti si professava contro la borghesia), ma come tutte le peggiori avanguardie (quelle italiane sono state le peggiori in assoluto), infine, solo la ricerca di novità, solo l'irrazionalità e l'incoscienza si sono dimostrate i veri fondamenti, e la dimostrazione ce la da' lo stesso Arbasino, il narratore del gruppo, che da "rivoluzionario marxista" divenne deputato del Partito Repubblicano (proprio come Marinetti fu un politico del Partito Fascista).  

Il "Bologna process", dicevamo, è un'altra negativa quanto programmatica idea dell'Unione Europea. Una riforma della scuola finalizzata a creare una didattica di tipo "aziendalista" (come è stata definita dagli esperti)  mirata a produrre degli specializzati (degli "utili idioti", direbbe Don Milani, vedi "Lettera a una professoressa") impiegabili in questo mercato del lavoro. Un processo, dunque, che non è finalizzato alla formazione dell'uomo ma dell'idiota, detto con una parafrasi. Il valore dello studio nella vita di una società dovrebbe sempre riguardare il rapporto con la grandezza umana, e una base formativa come quella attuale non può certo produrre quei grandi artisti i cui nomi presto saranno triturati e dimenticati anche - o primariamente? - in virtù di questo ennesimo processo disumanizzante. Il nichilismo antiumanistico dell'UE, con la sua piccola, tecnica,calcolatrice, affaristica visione bancaria al centro del sistema, probabilmente compirà la sua misera vittoria sulla grande cultura d'occidente e per questo potrebbero bastare altre due generazioni; a meno che le masse non decidano di spegnere la TV e mettersi a studiare, per crescere in conoscenza e coscienza fuori dalla loro scuola deprimente e disumanizzante. E, vista la situazione, è molto consigliabile oggi uno studio autodidattico, ma che sia sempre basato sui libri! Solo quando l'uomo di cultura sarà ricco di mille lezioni vissute intimamente (e sempre basate sui libri!) acquisterà coscienza di sé e sarà in grado di muovere alla volta di una necessaria "controcultura". Questo intellettuale, invece, chiuso nello schema dato, non può far altro che aggiungere grasso al potere. L'intellettuale nichilista, infatti, malgrado la migliore apparenza rivoluzionaria, non può che essere, di quel potere, il perfetto fiore all'occhiello. Ancora oggi vediamo come i Sanguineti e i Balestrini (quest'ultimo continua a pubblicare, ad allestire mostre ecc.) , e meglio ancora gli accademici come Umberto Eco (che per fortuna è morto), campino di rendita per aver spalleggiato il potere direttamente, o indirettamente mediante la pubblicità allo spirito nichilista del capitalismo. Umberto Eco, con la sua militanza politico-mediatica, è stato fino a poco fa la chiara dimostrazione di quanto affermo a proposito dei legami intimi che generalmente esistono tra le avanguardie italiane e il potere. Ma quando la cultura, per quanto compromessa e consustanziale, non servirà più alla bestia capitalista; quando l'anima colta dei paesi capitalisti non sarà più viva, questo potere post-modernista sarà allora anche perfettamente post-culturale. E quando morirà anche la mia generazione (i nati negli anni ’70) probabilmente i libri non esisteranno più. L’intero complesso della cultura tradizionale secolare sarà forse sostituito da qualche surrogato che tuttavia servirà ai produttori di merce per continuare a produrre una falsa "cultura" programmatica o per darsi delle arie, cioè per continuare ad andare a teatro, sfornare pseudo-libri ecc., o magari per professarsi non solo portatori di democrazia & pace nel mondo ma anche di cultura. 

Oggi l'Italia è il primo Paese in Europa che ha smesso di leggere; in cui regna sovrano “l’analfabetismo di ritorno” (regnante insieme a Mario Draghi).                                                                                         La perdita di lettori significa ovviamente anche una perdita di poeti e scrittori, ma anche di musicisti e cineasti, se consideriamo che anche questi artisti sono indissolubilmente legati ai libri. Se i libri non si vendono significa che gli artisti non leggono. E se gli artisti non leggono che tipo di artisti sono o si stanno preparando? E torniamo così al prototipo di uomo medio deciso a tavolino dove, su quel tavolino, c'è anche il prototipo di artista che si vuole incrementare, ben collocato tra i detersivi e i dentifrici, proprio come i cantanti di X-factor. E' anche vero, però, e questo mi conforta, che con internet è possibile non comprare più i libri ma leggere direttamente nel mezzo. Io stesso ho scaricato dalla rete alcuni manuali di sceneggiatura e li ho studiati al computer.  

Pasolini, De Sica, De Filippo, Jakobson, Tarkovskij, Lukacs,Moravia, Calvino, Sartre, Barthes, Eliade e tanti altri intellettuali, che non posso citare tutti per motivi comprensibili, sono solo alcuni nomi di questa generazione che ha innalzato il Rinascimento europeo sulle macerie del nazi-fascismo. Un potere che, ricordiamolo, ebbe il beneplacito di altri intellettuali, come Heidegger e Croce. Un potere che bevve a piene mani dal nichilismo e dall'edonismo, che allora si rappresentavano in Nietzsche e D'annunzio. Intellettuali che avrebbero potuto combattere i potenti dell'epoca, e invece li hanno sostenuti con forza. E questo si deve alla formazione della coscienza e alla formazione della morale di questi uomini. Gli intellettuali più grandi del dopoguerra avevano una coscienza che si è nutrita di Marx e di studi ampi, ma avevano anche una base morale che si è nutrita delle tradizioni popolari, dell'esperienza dell'umiltà, dove la morale esperita è sana, incorrotta dalla borghesia e dall'aristocrazia. Qualcuno potrebbe obiettare che anche Balzac e Michelangelo erano grandi e coltissimi uomini e pur tuttavia l'uno si spacciò per nobile, sposando anche una nobile, e l'altro frequentò assiduamente i nobili. Sì, è vero, il furbo Honoré Balzac aggiunse un "De" al suo cognome, ma lo fece per conoscere quel mondo e poterlo rendere ne "La commedia umana", ma la sua morale restò umile fino alla morte (è questo il grande realismo!), e ciò lo dimostra il suo romanzo più maturo "Le illusioni perdute"; lettura che mi piacque così tanto che quando tornai a Parigi cercai quel ristorante Flicoteaux in cui cenava il suo protagonista, Lucien. Per quanto riguarda Michelangelo, la nobiltà di allora era mecenatesca e colta, non avara effimera e ignorante come quella di oggi (che i nostri mass media servili e voyeristici ci sbattono in faccia continuamente), pertanto il grande scultore, pittore, architetto, poeta e amante del neoplatonismo amava frequentare certi ambienti quasi come fossero dei "circoli filosofici", sebbene i corpi e i volti delle figure bibliche presenti sulla Cappella Sistina, ultima sua opera, dimostrino che il suo vero amore, da buon realista, andava al popolo. 

Ma il realismo non è solo un'estetica, al contrario: è sempre una posizione ideologica precisa. Davanti al problema delle classi sociali il realista non sposa la classe dominante né opera una discriminazione razziale, ma considera la realtà per come essa è, e se il popolo è "bello" o "onesto", tanto per fare degli esempi, allora il San Giovannino di Caravaggio avrà il volto di un pastorello e la Madonna quello di una puttana ripescata morta nel Tevere. Oggi assistiamo a un preoccupante ritorno del principio dell'estetica di Croce, e lo constatiamo dappertutto. Un altro filosofo apprezzato dal fascismo, secondo cui l'arte sarebbe un'intuizione lirica che non diventa mai concetto. Tesi così miope e ignorante che il mero sostenerla equivale a negare buona parte della più grande letteratura mondiale, dai tragici greci a tutte le opere di realismo e naturalismo. Tuttavia, prima Gramsci e poi il neorealismo dimostreranno invece che l'arte è ragione, conoscenza, coscienza, arma dell'Uomo, funzione sociale, e può essere perfino organica a una visione politica. Ma dimostreranno anche tutta la sua verità, ovvero che può semplicemente essere la voce dell'artista, dell'uomo diverso dal coro. Il fascismo, ricordiamolo, eliminava l’uomo diverso dal coro. L'artista impegnato e militante, infatti, salì in gloria in Europa nel dopoguerra con il comunismo al potere e con una diffusione dell'intelligenza e della visione comunista o comunque di estrema sinistra. Poi, però, con il fascismo riorganizzato nella DC, la quale fu un esecutrice del fascistico capitalismo USA, l'artista e l'intellettuale di sinistra, insieme con l'arte e l'intelligenza stesse,  vennero nuovamente riposti. La morte di Pasolini è, in questo senso, esemplare. Un esempio di violenza estrema ma anche di restaurazione. 

Oggi la morte dell'artista impegnato non è più fisica ma virtuale, direi: postmoderna.  L'artista del 2000, qui da noi, nei paesi più sviluppati e democratici del globo, riceve questa morte (da lucciola, proprio come l'insettino luminoso ) prima di tutto per via dell'inquinamento del clima culturale, sporcato da editori e produttori vili quanto affaristici. In questo clima l'artista vero e libero (volante come lucciola) si sente ovviamente paralizzato, e si riversa su internet. Ma la sostanza di questa morte è un'altra e consiste nell'incomprensione più che nell'emarginazione e nell’anonimato coatto, che pure sono dei problemi gravi. Morte che avviene quando il canto non può essere più udito da chi dovrebbe.               Vi è poi una forma di morte che avviene per corruttela: quando il potere chiede ai suoi nemici, che sono gli artisti veri e liberi, di compromettersi e accettare le sue condizioni suicide. E' il momento in cui il poeta paga l’editore e il regista accetta il mercato con tutti gli annessi del caso: l'ingerenza della produzione, la censura, la pubblicità, ecc. Mario Martone una volta rispose così a una mia domanda: "Io accetto gli spazi del mercato". L’artista libero, diciamo così, è oggi solo colui e colei che non paga, che non accetta il mercato (il potere) e non se ne rende oggetto in nessun modo, tanto meno assumendone gli schemi artistici: quelli appositamente obbedienti e moderati, oppure appositamente trasgressivi ed estremistici. E ciò lo fa a costo di restare in ombra per un'intera vita. Oggi l'artista libero scrive dei libri che vende a proprie spese, e questi artisti vengono chiamati "a.p.s". O magari se li fa stampare da Amazon, che gli chiede solo una percentuale. Oppure scrive su un blog, come faccio io. Nel cinema è libero colui o colei che realizza film in modalità a.p.s. Film che vedranno solo quelle migliaia di spettatori che questo autore saprà procacciarsi con youtube, facebook e con il rincuorante mezzo di internet in genere. In tal senso internet viene a confortarci da ogni plausibile pessimismo, dato che l’incognita di questo mezzo globale e abbastanza libero potrebbe portare un emerito sconosciuto non raccomandato e non pagante all'attenzione di qualche pubblico e questo solo per una combinazione fatale di fattori. Ma se ciò vale sempre più per la musica leggera (che usa i videoclip) e per le numerose videoscritture, che usando il video sono subito congeniali a computer e cellulari, ecco che per la pittura, la scultura e la poesia non ci sono per nulla piattaforme adeguate. Pinterest e Instagram sono una vetrina utilizzata da molti fotografi e pittori, ma in realtà fotografia e pittura sono prostrate alla dinamica e alla cultura del video, che presuppone sempre una distanza dall'arte, quella distanza che per il cinema è normale mentre per la pittura e la fotografia è antitetica. Questi sono solo due esempi, ma sono molte le arti che non si prestano a una visione tramite video.   

Alda Merini è stata l’ultima grande poetessa italiana nel senso di quel ruolo culturale e sociale riconosciuto che oggi non esiste più: il poeta. Maurizio Costanzo la tradusse sulla sua ghigliottina: il palchetto di un teatro trasformato in una televisione, e lì la giustiziò con la derisione. Forse da una parte quello show l’ha resa nota al pubblico, ma dall’altra chi può leggere oggi Alda Merini senza ricordarla in quella brutta versione televisiva? E' anche questa una forma di fascismo, ma che non si attua con la repressione, appunto, bensì con la profanazione pubblica. Durante il fascismo l'arte non era per le donne, che dovevano solo "badare al focolare domestico"(testualmente), ma oggi, mi chiedo, non è peggio se l''arte, gestita comunque dagli uomini, rovina le scrittrici pubblicamente? E non importa se Alda fosse mezza matta o si prestasse al gioco, resta il fatto che il lucido goliardo (Costanzo e il pubblico) l'ha usata e derisa. Durante il fascismo, però, a ben vedere, l'arte non era nemmeno per gli uomini, infatti, salvo quei signori ricchi cui era riservata, erano milioni i maschi italiani che dovevano solo lavorare e fare figli (magari per ricevere sacchi di farina da Mussolini) e restare così incolti. L'arte era chiusa in una torre d'avorio, come si diceva, per pochi addetti, ed era non popolare ma intellettuale, addirittura "cortese" secondo la linea petrarchesca. Neanche l'uomo fascista, insomma, doveva pensare, e questo è sempre stato il paradigma della borghesia. Nel manifesto teatrale di Brecht si accusa proprio questo elemento: il pubblico borghese che dopo ogni spettacolo teatrale torna a essere quel che è. Sarà poi Pasolini, con la sua teoria teatrale, a chiarire quello che Brecht aveva intuito, ossia che il teatro doveva essere tolto alla funzione sociale (quale rito borghese) per essere investito di una nuova "funzione culturale"(sic). Ma Brecht e Pasolini poterono concepire tali idee di riscossa solo in quanto comunisti in un'Europa che si stava ricostruendo sull'antifascismo e con una forte prospettiva comunista pratica e ideale agente nella società (almeno fino agli anni '70). Oggi, invece, nella nostra falsa democrazia di stampo capitalista l’arte è scaduta e gli uomini e le donne, quando non sono indifferenti, sono sempre più spesso spettatori passivi e acritici, e non solo rispetto alla vita ma anche rispetto all'arte che la rappresenta coi suoi simboli e i suoi giochi. Del resto, l'arte non è per quest'umanità, ovvero per questi uomini che devono solo pensare agli affari o a far durare il salario fino alla fine del mese; né serve a evadere dalla realtà e da ogni impegno per ingozzarsi con il consumismo e il suo creato nichilista. L’ottica del divertimento totale, dell'evasione con la droga o con l'alcool assunto in piccole dosi ma massicce (pensiamo all'ultima usanza dell'aperitivo) ecc. scolpisce un uomo infantile e distante, un forte consumatore di droghe o un edonista ubriaco... non di certo uno che si ami lucido, critico, impegnato, che si impegni come studioso... insomma uno che possa essere un valido destinatario dell'arte oltre che un valido artista! 

L'arte, ma anche la teoria, la filosofia e la critica d'arte hanno conosciuto negli anni '50 e '60 del Novecento il loro apogeo; moltissimi sono i testi rivoluzionari o splendidi che potrei citare, i quali non hanno nulla da invidiare all’’Ottocento russo o francese, ma questo finché, negli anni '60, con l'offensiva capitalista USA (ricordiamo gli intrighi  di Kissinger con la DC), la cultura ufficiale, con tanto di sicari matricolati, ha dichiarato “superato” il realismo così come il naturalismo (vedi la Nouvelle vague). Due filoni che conservavano la tradizione e rilanciavano lo spirito umanistico e popolare, proponendo una visione del mondo proletaria e di sinistra. Ebbene, su questi filoni storici, "impegnati" e "scomodi", si volle così riaffermare, restaurare l’ideologia borghese, disimpegnata ed effimera. A mio avviso la Nouvelle Vague, benché in un certo senso reazionaria, è stata tuttavia la rivendicazione dei "figli contro i padri" che più di tutte ha rappresentato l'ultimo approccio al cinema e alla realtà fondato sulla cultura e sul presupposto di una teoria postulante un diverso amore per il vero. Godard definì questo nuovo cinema, appunto, lo "splendore del vero" volendo significare non solo il vero come realtà ma il vero come genuinità dell'artista e dei suoi mezzi. Con il film "Effetto notte" Truffaut critica appunto il vecchio cinema naturalista francese colpevole di affidarsi alla finzione contro la verità ( l'effetto tecnico con cui si riproduce la notte, appunto). Nello stesso periodo in Cecoslovacchia germogliò un cinema simile, a cui si diede il nome di Onda nuova, ma il suo maggiore rappresentante Milos Forman cambiò nettamente stile quando approdò negli USA e contrasse l'estetica del cinema industriale. Sempre negli Stati Uniti, in quegli anni, Jonas Mekas produsse un cinema visuale e surreale sulla base delle avanguardie storiche, ma solo la "Pop art", forse, è stata, sul piano della novità e dell'intelletto, un'arte altrettanto interessante rispetto alle Onda Nuove francese e ceca. La Pop art, però, ebbe presto il suo successo non per essere critica e impegnata (vedi Raushenberg) ma per essere piacevole, decorativa, standardizzata, sorella del gadget e dell'hot dog (Wharol). Da una arte fu forse l'ultima arte realistica, vera e libera, ma poi l'ottica post-modernista vinse sull'idea e sull'uomo per abbracciare il mercato, la produzione in serie, l'oggettistica brutale e la sperimentazione più semplice. Con il post-modernismo siamo agli inizi degli anni '80 (il testo teorico di Lyotard è datato 1979) e man mano scopriremo che questo movimento, benché scarno nella sua essenza, modificherà lo spirito dei tempi più di ogni altro. Da una parte sposterà l'attenzione nuovamente sull'avanguardismo con tutti i suoi annessi e connessi ( contiguità con il potere, il suo essere rappresentazione stessa del potere e della falsa razionalità capitalista, quindi la funzionalità, l'insensibilità, l'asocialità, ecc.), dall'altra, insieme con tale rovesciamento dell'approccio artistico alla realtà, determinerà anche un rovesciamento dell'approccio dell'uomo con l'arte, che equivarrà sempre più a una perdita generale (artista e fruitore) di vitalità, amore, coscienza, impegno, senso critico, immaginazione, estroversione, socialità, genio, cultura. Analizzandola in termini umanistici l'arte post-moderna è introversa e asociale fino al solipsismo, è insensibile e immorale fino al cannibalismo, è distruttiva e autodistruttiva fino a negare se stessa. In filosofia si chiama: "de-costruttivismo", questo atteggiamento filosofico il cui maggiore rappresentante è Derrida, seguace di Heidegger e Nietzsche. Ma se la consideriamo "lo spirito dei tempi", allora questa elucubrazione postmoderna ricalca perfettamente l'estetica e la politica dominante, ovvero quel capitalismo che dagli anni '80 ad oggi è divenuto sempre più cinico e astratto, ma soprattutto, appunto, cannibalistico. Non a caso il genere cinematografico che verte sul piacere del cannibalismo e che hanno definito "cinema cannibale" prende piede proprio negli anni '80, con la prima pellicola che risale ai primi anni '70, se non sbaglio; un filone specifico che è membro del filone horror. L'autodistruzione capitalistica, tuttavia, potremmo anche definirla auto-cannibalismo, e qui spiegherò questa mia idea, che si raccoglie tutta in questo interrogativo: l'antropofagia di certe tribù africane primitive, non vi sembra che possa essere idealmente traslata in un parallelo legittimo con certe "tribù" del potere capitalistico più sviluppato? Con la differenza, però, che il capitalismo è anche autocannibalistico, ovvero non prova solo il gusto di cucinare gli altri umani ( i propri soldati, i propri cittadini, i propri clienti, ecc.) ma di divorare se stesso. In altri termini: io credo che la "carne" dei macellati dalla finanza (gli stessi brokers suicidi), dell'imprenditore che sfrutta se stesso 24h/24h, del mafioso che in nome della famiglia uccide le famiglie altrui e fa uccidere la propria, fino al consumista che si distrugge con il consumo (vedi il film "Super size me") sono tutti casi corrispondenti per archetipo allo stesso rito, anzi no: allo stesso moto psicologico umano (divorare i propri simili) ma secondo rituali differenti. Se consideriamo la realtà interiore dell'uomo come un'insieme di organi ( identità, anima, spirito, pensiero, sentimento, immaginazione, ecc.), un corpo con una carne invisibile, allora la mia idea parallelistica ha un senso. Non so chi di voi ha mai visto le fotografie delle tribù cannibali africane con i corpi umani macellati e gli organi penzolanti, ebbene, dopo decenni di questo capitalismo cannibale, se tale corporeità interiore degli uomini sottoposti al capitalismo fosse visibile ne avremmo un'immagine ancora più rivoltante. Derrida non fu mai accusato di essere un cannibale, però fu accusato di essere un pericoloso "nichilista", pericoloso in quanto "distruttore della conoscenza e della logica umane". Ma la logica e la conoscenza non sono forse due organi facenti parte del corpo della nostra razionalità e della nostra culturalità? 

Siamo dunque tornati al tema centrale, a quello spirito che è nello spirito dei tempi: il nichilismo, e, quindi, al post-modernismo come autodistruzione e distruzione dell'arte. Il movimento post-modernista ci ha dato, negli anni '60, un'arte auto-svilita, stupendamente mediocre, banale, anodina e tuttavia con un largo raggio d'influenza tra campi e discipline diverse; ma è soprattutto sul piano ideale e filosofico che ha sferrato il suo colpo più duro, e con la sua falsa eloquenza ha minato profondamente il pensiero e la cultura umani. Del resto, molte opere di Jasper Johns sono quasi Pop art, o si rifanno figurativamente al Dadaismo, non posseggono la cattiveria o la perversione di Derrida; insomma non c'è stata, in quello che viene riconosciuto da alcuni come il maggiore rappresentante del post-modernismo pittorico, una negazione dell'arte o una alienazione fuori del sensibile e del "tattile", eccetto in seguito, quando le sue tele si perdono in astrusità astratte e sterili. In realtà, a parte il de-costruttivismo in architettura, di cui abbiamo chiari esempi (uno tra questi mi ricorda il nostro "colosseo quadrato", e non è un caso che ricordi l'arte fascista), nelle altre arti è impossibile ravvisare un'opera puramente post-moderna, ovvero slegata e indipendente dalle avanguardie storiche. Però, questo non ci deve far pensare che il postmodernismo sia un'illusione dei critici o dei giornalisti, o che sia un fatto solo accademico. Al contrario: essendo uno "spirito" , o anche: un pensiero effuso, un atteggiamento nonché una moda, la sua presenza è rintracciabile ovunque, in quasi ogni artista almeno dagli anni '80 in poi. Uno spirito tremendamente pervasivo che infine, come per magia, è diventato molto ben visibile. Infatti, se ci guardiamo intorno oggi vediamo quasi soltanto artisti che ci presentano le loro "vasche da bagno da museo", le loro immense tele monocromatiche, i loro happening vuoti di senso e tutto un neo-astrattismo e un neo-dadaismo che forse è vero che prende le mosse da Duchamp e Johns, ma è vero pure che non ha nulla a che vedere con quelle esperienze dada o astratte. Per decenni Johns non è mai stato nichilista, e se poi si ritirò dal mondo io credo che non fu per nichilismo, sebbene lo spalleggiò. Il nichilismo del movimento post-modernista postula la negazione stessa del valore dell'artista e dell'arte (quel che ho chiamato "auto-svilimento"), la negazione del pensiero che muove l'arte e il progresso artistico (concetto contrario all'illuminismo), la negazione della critica d'arte e della società che pensa all'arte, della società come destinatario e interlocutore, ecc. (solipsismo, disimpegno, asocialità, apoliticità). Le bandiere americane di Johns ovviamente non significano asocialità e apoliticità, altrimenti al posto delle bandiere ci sarebbero degli stracci qualsiasi. E' vero però che è stato il periodo post-moderno del noto artista americano a diventare emblematico di tutta una vita, ossia la stagione delle tele monocromatiche o con pochi ghirigori stupidissimi, ecc. Non è casuale nemmeno la collaborazione con Samuel Beckett, dove il drammaturgo dell'assurdo e dell'illogico in fondo non è che un nichilista de-costruttivista. La generazione dei Beckett e degli Ionesco, tanto per fare due nomi di scrittori borghesi che hanno ottenuto le lodi della borghesia, proprio per questo miope e interessato occhio della critica (organo del potere), hanno dominato e influenzato il teatro più di molti altri più validi drammaturghi. Chi non ha mai sentito parlare di Harold Pinter? Ebbene, questo e tanti altri ne sono stati gli epigoni, esattamente una generazione dopo quella degli anni '60-'70. Siamo agli inizi del 1990 quando l'inglese Pinter scrive questa pagina di copione:

Terry               - Le dico, ha tutto.

Gavin              - Davvero?

Terry               - Sì. E’ davvero di primissimo ordine

Gavin              - Sul serio?

Terry                - Gran classe. Cioè, quello che voglio dire è che ti puoi fare una partita a tennis, una magnifica nuotata, c’è un bar proprio lì…

Gavin              - Li dove?

Terry                - Accanto alla piscina. Poi ti bevi un succo di frutta. È compreso nel prezzo, e ti danno questo fantastico asciugamano caldo…

Gavin              - Caldo?

Terry               - Una meraviglia. È caldo davvero. Non così, tanto per dire.

Gavin              - Come dal barbiere.

Terry               - Dal barbiere?

Gavin              - Sì dal barbiere. Quando ero ragazzo.

Terry               - Ah,si?(pausa) E cioè?

Gavin              - Mi metteva un asciugamano caldo sulla faccia, sa, sul naso e sugli occhi. Me lo sono fatto fare migliaia d volte. Per eliminare tutti i punti neri tutti i punti neri da1 viso.

Terry               - Punti neri?

Gavin              - Li scioglieva. Gli asciugamani, sa, erano caldi, al limite della sopportazione. E il barbiere mi diceva: “E’ abbastanza caldo per lei, signore?” Scioglieva tutti i punti neri.  (Pausa). Io sono nato nell'ovest dell’ Inghilterra. Perciò non potrei che parlare dei barbieri dell'ovest. Per quanto sono quasi certo che gli asciugamani caldi, per i punti neri fossero usati un po' dappertutto, a quei tempi. Sì penso proprio che fosse d'uso comune, allora.

Quando la critica si fa parziale e addirittura agisce come lo sguardo del potere, come fu negli anni '70 con la fine della stagione antifascista e comunista del dopoguerra, e con il rafforzamento del capitalismo in questo suo regime fatto di propaganda, ecco che i veri artisti civilmente impegnati e scomodi al potere (artisti di sinistra, negri, marxisti, ecc.) subiscono il prezzo della reiezione o perfino della morte (la morte di Pasolini è del '75), mentre gli artisti leggeri, ironici (ma secondo il dogma ironico del potere), per non parlare di quelli sordidamente complici e di destra, ottengono premi e pubblicità. Pinter riceve addirittura il premio Nobel, mentre Pasolini, nella sua Roma, riceve l'intestazione di una via invisibile, un vicolo cieco, nel quartiere Trionfale. Ma noi sappiamo che il vero vicolo cieco è altrove. E' proprio nella morte della critica, nella morte della logica, nella morte dell'arte e dell'artista, nella morte del teatro che diventa uno stralcio di nulla, nella morte del pensiero e della razionalità, e nella morte pure dell'umorismo, a giudicare dalla pagina qui riportata. Il vicolo cieco è in questo auto-cannibalismo del potere, che per accecare e istupidire l'umanità non può ovviamente che accecare e istupidire se stesso. La loro furbizia è solo un'illusione, in realtà è una categoria della loro stupidità. Un giorno ascoltai un'intercettazione telefonica tra boss mafiosi che parlavano del business dei rifiuti: uno diceva: "stiamo inquinando le terre nostre, l'acqua non la possiamo più bere", e l'altro rispondeva: "tanto noi beviamo solo acqua minerale". Secondo questo sguardo della borghesia al potere, e la sua forza di propaganda (auto-cannibalismo è dir poco!), la critica d'arte degli anni '90 non poteva che esaltare i Derrida, i Pinter e i Johns più sterili, disumani e inespressivi che aveva per le mani. E, forte degli ultimi approdi nichilistici e misantropici di Johns, dimenticandone i lavori precedenti, questa critica ha spinto imperiosamente l'arte nel vicolo cieco dell'arte. 

E comunque non si deve essere pessimisti neanche in questo caso, dato che oggi, nel primo e secondo decennio del 2000, assistiamo a un cambio di rotta generale. Lo stesso Johns sembra essersi ricreduto e il suo ultimo periodo è più umanistico, con "Regrets" ritorna a vivere il colore, la pennellata, la forma. E se ci guadiamo intorno riscontriamo ovunque nel mondo un ritorno alle qualità materiche della pittura, al disegno, alla figura, all'espressione, al significato, all'idea, alla società, all'uomo. Se l'arte non esprime l'uomo allora non è arte, né serve a nessuno (se non al potere: che è un perfetto nessuno). Mentre la critica (personificante il potere), che ammirò le cose peggiori di Johns, proprio come nel campo filosofico ha ammirato prima Lyotard e poi Derrida, non fa che ripetersi secondo il palinsesto del potere di cui essa fa parte, e per difendersi dal ritorno dell'umanesimo e dell'illuminismo, e cioè di un'uomo presente a se stesso, deve ripetere al mondo le solite menzogne. Ma questa sua anti-umanità e anti-culturalità sono ormai un  programma datato. La stessa rivendicazione attuale di Putin, in tal senso, non era concepibile fino a uno o due decenni fa. E' come se il regime USA, pur con il suo rafforzamento nell'UE, non riuscisse più a produrre un modello valido per tutti, né a controllare il mondo come tenta di fare. La sua massoneria e i suoi club neonazisti, i suoi illuminati totalmente anti-illuministi, quelli che hanno fatto con Derrida quel che è stato fatto con Nietzsche, non possono più farlo oggi come un tempo. Né tanto meno vogliono far parlare l'intelletto di nessuno, sia pure nichilista. Quest'ultima espressione del potere sembra essere la pura propaganda. Gli intellettuali contano poco, non vengono chiamati a difendere il regime più di quanto non vengano investiti i soliti giornalistucoli, primi affidatari della propaganda. E' come se il potere non volesse neanche più ragionare e usare la razionalità, tanto il suo interesse sia ormai dichiarato e il suo nichilismo sia compiuto. D'altronde il pubblico di questa propaganda, che siamo noi, è già sufficientemente annichilito da non voler quasi più ragionare. Ma questa, a mio avviso, non è l'apocalisse. Questi morti viventi che siamo diventati tuttavia potrebbero voler ripristinare una loro vitalità intellettuale proprio in opposizione all'inferno d'ignoranza, oscurantismo e propaganda in cui sentiamo che essi ci vogliono tenere. E' incredibile, infatti, come quasi la maggioranza degli italiani sia oggi contraria all'invio di armi all'Ucraina, e questo pur non essendovi un vero dibattito pubblico ma quasi soltanto menzogne di Stato. Gli americani non sono più i nostri liberatori, e le sigarette oggi stanno passando di moda. Tanti giovani oggi li vediamo attaccati a certe specie di pipe a vapore. Il pianeta sta soffrendo per le foreste distrutte e bruciate, e per i moltissimi virus su cui anche i più fieri capitalisti oggi devono investire, se non vogliono morire. Per me è un cambio eccezionale vedere Bill Gates che investe i suoi miliardi sulla ricerca scientifica invece che sul petrolio. Un cambio che è avvenuto negli ultimi due decenni, appunto. E a proposito di virus, concludo questa mia ennesima divagazione su Derrida (il quale ormai mi ha scocciato!) con una digressione opportuna. Questo signore che venne ospitato ampiamente dalla stampa e dalla televisione, alcuni seri e veri filosofi lo giudicarono "non filosofo", un millantatore. Ma noi abbiamo già detto come i giornali e le riviste da strapazzo dirette dagli stessi editori siano appunto come Kratos per Zeus, ed ecco quindi che nonostante e contro questo inquinamento del pensiero, alcuni importanti filosofi, sinceramente preoccupati dai discorsi "decostruzionsti" di Derrida, scrissero articoli e lettere aperte su di lui, definendolo persino "virus teso a distruggere la logica e la conoscenza". 

Dopo i movimenti pittorici, scultorei e plastici del primo '900 (impressionismo, dadaismo, astrattismo, espressionismo, ecc.) io credo che solo il movimento della Pop art sia stato un movimento altrettanto importante, e per la sua intrinseca forza e per il dibattito sociale che ha scatenato. Ma questo lo dico contro me stesso, dato che io detesto al Pop art. E comunque io so che la Pop art è stata sopravvalutata, e meglio di me molti ferrati critici d'arte sono d'accordo nel sostenere che tale sopravvalutazione abbia avuto fini speculativi, in un'America attratta dalle mode. Se vogliamo: l'ultimo momento di arte moderna, e il primo di arte postmoderna. Inoltre, a rivedere oggi le opere di Warhol viene quasi da ridere, benché vivaci e scoppiettanti come volevano essere, e tuttavia non sono mai mediocri perché sono l'evidente frutto di un genio oggettivo basato su una solida tradizione. Mediocri sono invece tutte, e dico tutte, le opere del postmodernismo almeno dagli anni '90 ad oggi. Tutte le enormi tele a tinta unita o con qualche riga, con qualche figura geometrica, con qualche foro di trapano; tutte le installazioni insignificanti che sono state collocate nei musei ecc.. Queste sì che non hanno una solida base, ma anzi presuppongono il superamento della tradizione soltanto con il facile gioco dei colori e delle astrazioni. Eppure, nonostante la differenza di valore, ad aver maggiormente inciso sul nostro immaginario e sul corso dell'arte dagli anni '90 ad oggi è stato proprio il postmodernismo con il suo esercito di artisti e artistoidi epigoni del nulla. Io credo che si possa proprio parlare di mediocrità, e che il boom di questa arte si debba alla mediocrità dell'artista, del potere e dell'uomo medio sempre più istupidito e incolto. E' come se l'uomo medio, per non sentirsi troppo ignorante, scegliesse di presumere di non esserlo; e come aggiunge presunzione all'ignoranza, aggiunge una insignificante tela alla sua parete. Quella tela gli corrisponde intimamente e lui lo percepisce. Egli o ella apprezza bene su un muro della sua casa borghese in stile moderno, sul suo divano rosa shocking, un quadro che non sia troppo imponente ma che faccia da pendant con il divano, magari realizzato con un unico colore acrilico monotono e inespressivo secondo l'ultimo grido del nichilismo in pittura. Inoltre egli o ella sa che quella "roba" è il genere più di moda, l'astrattismo più praticato e venduto al mondo; quella aberrazione che il venditore con il foulard al collo chiama stentoreamente "postmoderno". E in un mondo che concepisce l'aberrazione dell'arte senza riuscire a concepire l’arte, l’aberrazione postmoderna è certo comprensibile. Un'arte postmoderna che mai, in nessun istante della sua vita lunghissima e non ancora conclusa,  ha aggiunto qualcosa all'arte o alla sua storia o alla sua cultura, e nemmeno alla sua tecnica; e questo probabilmente si deve al fatto che i presupposti teorici del postmodernismo sono proprio “paradossali e contraddittori”, come rilevò il filosofo discepolo della scuola di Francoforte Jurgen Habermas, "dato che non si può negare la razionalità e la realtà facendo discorsi razionali e fondati nel reale". 

Nietzsche inneggiava a un “disprezzatore che si apprezzava in quanto disprezzatore”. Zaratustra, come creatura del fantasioso scrittore Nietzsche (considerato a torto un filosofo), non ha niente a che vedere con la grande opera di Turgenev, che fu un vero e grande scrittore e senza alcuna vanità. In Padri e figli il nichilismo non è che una visione giovanile alquanto comprensibile sul piano generazionale e quindi integrabile otticamente e socialmente, e non è invece quel moto distruttore, razzista e classista che ha reso famoso Nietzsche. Purtroppo, però, i nostri nichilisti non discendono dal nichilismo russo, ma da quello "paradossale", snob ed esibizionistico del visionario tedesco. Un pensiero classista e razzista che è stato poi applicato da Hitler con le conseguenze che sappiamo, e dopo di lui, ovviamente, in moltissime altre forme, riscontrabili nel nostro quotidiano. Se pensiamo che anche il Kubrik di "2001 odissea nello spazio" si ispirò alle suggestioni di Nietzsche. Un virus che ha attraversato i campi di concentramento e sterminio per culminare nello sterminio della logica e della conoscenza ai giorni nostri, e cioè riapplicandosi non solo in questo post-nazismo ampiamente rifiorente, ma nella stessa idea del superuomo che questo uomo medio reincarna. Un superuomo super-ignorante e dunque perfettamente integrato e incarnato nel clima disteso da questo capitalismo. Ed ecco dunque l'individualista attuale, l'imprenditore cinico, il finanziere avido e via dicendo fino al piccolo operaio lavorante in proprio su cui si fonda oggi il post-fascismo provincialistico dei leghisti. Un superuomo che ha finalmente distrutto il popolo ben al di là del suo mito derivato dall'idealizzazione comunista, eliminandolo sia concettualmente sia fisicamente. Oggi non ci sono più persone puramente popolari, il modello borghese le ha invase. Per esempio l'umiltà, anche questa caratteristica umana è venuta meno, e se oggi la stiamo riscoprendo lo facciamo come atto di forza e di coscienza che si pone su una scala di valori, non per una fioritura genuina e naturale che avviene nel nostro cuore. E' un elemento del popolo che è stato distrutto, ed è un valore che anche la Chiesa ha alienato nei fatti e negli esempi. Un "estraneo" a cui vogliamo tornare. Ma esiste l'umiltà senza religiosità? Nel film "Diario di un curato di campagna", basato sul romanzo di Bernanos, Bresson sembra darci una risposta chiara. Il giovane prete è sublime perché umile, e tutti coloro che si ergono orgoglioso o prepotenti davanti a questa umiltà finiscono con l'esserne umiliati. La "grazia" (altro valore religioso) che il curato vede intorno a sé prima di morire, è la stessa umiltà di tutta una vita che si riassume in grazia, come se alla fine di una vita umilissima (il curato mangiava pochissimo ed era malato fin da piccolo ma non si lamentava mai) ciò che si raggiunge non può che essere la grazia. Ma si tratta di un curato di campagna, non di città, egli appartiene inequivocabilmente al ceto popolare. L'umiltà che è grazia è una caratteristica del popolo, interdetta alla borghesia. Non la si ottiene col denaro, con l'ambizione e col successo ma anzi la si allontana. Il curato è un giovane ben istruito e intellettualmente capace, si percepisce che lo studio  gioca un suo ruolo in questa umiltà, che l'intelletto è coscienza d'amore per Dio. Nietzsche lo avrebbe detestato, mentre io l'ho amato. Il falso profeta tedesco detestava il popolo ("moralità da schiavi"), ne detestava proprio l'umiltà. Quell'umiltà che coincide con la religiosità. La "moralità da schiavi" è infatti la religiosa umiltà popolare. Il tedesco teorizzava il superamento di questa caratteristica virtù popolare con l'ambizione di potere, e questo pensiero orrendo e prepotente è stato recepito da tutti in Occidente. Oggi siamo di fronte a una popolazione europea in cui i popoli, nei loro individui ingenui e buoni, umili e naturali, sono stati completamente sviliti e superati da questo uomo medio in cui ignoranza e presunzione si sintetizzano in una sorta di nuovo tratto caratteristico. Questo ignorante presuntuoso non vuole sapere, vuole solo affermarsi. Spesso non riesce, ma quando riesce la sua pericolosità sociale aumenta a livello esponenziale, perché peggio di un comune ignorante presuntuoso c'è solo l'ignorante presuntuoso che ricopre ruoli di potere. 

Il successo, quell'ambizioso valore in cui tutta la borghesia è praticamente paralizzata ormai da almeno trent'anni, è oggi una delle peggiori pieghe di questa Italia ignorante. Dico paralizzata perché noi vediamo bene che chi non riesce a "realizzarsi" come superuomo, poi crolla fatalmente. E il potere, grande nichilista, vuole proprio questo: far sentire “genio” un perfetto buono a nulla e viceversa. Le veline, i tronisti, i cantantini, i modelli della moda, i giornalisti televisivi, i comici dozzinali, ecc., costituiscono un esercito che ogni giorno marcia alla presa di un qualche spazio di successo, proprio come i politicanti marciano ogni giorno alla presa di un qualche potere su di noi. Nel vedere questo spettacolo soffro come l'umile fervente curato davanti ai suoi brutti interlocutori borghesi. E vorrei fuggire, ma dove? Molti giovani intellettuali italiani (nel senso di scienziati) sono già fuggiti, ma se lo scienziato può certo permetterselo il poeta lo può di meno. Non è l'intelletto del ricercatore che l'Italia detesta, benché lo deprima, ma è l'intelletto dell'artista impegnato, dell'umanista fervente, del realista che vuole opporsi a tutto questo irrealismo! E questo non lo dico per parlare di me quanto per affrontare il problema dello studio alla base di tanta arte, uno studio che non sfocia socialmente. E lo dico perché dobbiamo sempre parlare del genio, checché ne dicano i professori di oggi, che non fanno altro che denigrare il genio, l'ispirazione e tante altre verità dell'artista. Professori che esaltano il razionalismo moderno contro la razionalità umanista, ed esaltano la specializzazione in una disciplina contro l'artista a tutto tondo. Quale grande genio oggi può esprimersi così assediato da ogni fronte? Quale artista vero in questa Italia orientata alla logica X-factor? Quale genio può affermarsi per le sue capacità innovative in un Paese in cui non c'è dibattito culturale? Dibattito che manca persino all'interno dei luoghi deputati. E intanto la televisione arruola musicisti, cantanti, ballerini per i suoi interessi spettacolari e venali. Nell'ultimo annuario di poesia curato da Manacorda, anno 2012, il "critico militante", come egli si definisce, dichiara tutta la sua disperazione di critico militante e avverte il lettore che quello sarebbe stato l'ultimo numero. Ecco dunque in quale situazione ci troviamo: in un'Italia in cui i critici letterari più seri e intelligenti gettano la spugna, cessano la loro attività come fossero dei negozi.

No, a uccidere Dio non è stato il popolo, come pensava Nietzsche, ma il potere economico-politico. Nietzsche non aveva studiato bene Marx, non aveva dietro di sé uno studio economico-sociale e del resto non era nemmeno interessato a “confondersi” col popolo. Non aveva compreso il contenuto dei libri di Marx, sebbene quando pubblicò il racconto di quella sorta di Hitler ascetico e mitico che scende dalla montagna, era l'anno in cui Marx moriva. Il filosofo del nichilismo era ovviamente un uomo profondamente ignorante sul piano umano. Sappiamo quanto spesso inneggi all'azione, lui che non sapeva agire. Amava la cultura, stimava i grandi intelletti, ma preferiva gli uomini d'azione come Napoleone, i Romani sui Greci. Uomini privati di un'etica e di una religione, sarebbero stati più liberi. Noi oggi sappiamo, invece, quanto un uomo d'azione privo di etica e religione sia mostruoso. Il superuomo realizzato è Homo faber, speculatore avido, è il borghese che prende il potere e impone al mondo la propria sempre maggiore incapacità a ragionare e a sentire, la propria stupidità, il proprio egoismo al posto della collettività, il Dio denaro al posto di quella religiosità di cui l'uomo è intimamente, inalienabilmente impregnato. Il suo uomo d'azione è dunque, in fondo, un altro Ecce Homo. L'Ecce Homo mutilato e sanguinante che non possiede studio, volontà di conoscere, intelletto. E torniamo quindi al motivo di questo mio scritto: lo studio. 

Una mente è capace di conoscere e comprendere solo se è armata di una grande volontà di sapere (non limitata, non specifica, non specialistica, non unidimensionale, non chiusa, non faziosa) e a questa corrisponde una dotazione di strumenti culturali i più eterogenei possibile. E dirò di più: questi strumenti culturali sono in maggioranza libri. Sono pochissimi ormai i casi in cui l'uomo può conoscere e comprendere, e di conseguenza emanciparsi, crescere, migliorare, ecc. senza passare per i libri. Un tempo con il solo studio pratico si poteva diventare inventori, scienziati, botanici, artisti ecc., ma stiamo parlando dell'uomo che inventò la ruota, o di quello che bucando una canna inventò il flauto, e di quell'altro che seppe suonarlo in modo elementare. Non è un caso che l'iconografia del dio Pan è anche quella del pastore con il flauto. Parliamo di uomini arcaici, che oggi non potrebbero dare nessun apporto alla cultura e alla scienza. Sì, forse ancora oggi per portare al pascolo le capre o per suonare un semplice flauto non si ha bisogno di studiare sui libri né avere lezione di maestri, ma non è così non appena il pastorello vuole cimentarsi in una musica più complessa che chiede di essere letta sullo spartito; o se il capraio, davanti a una sua capra ammalata, volesse approfondire il tema della malattia. Il musicista, in questo caso, ha bisogno di conoscere le note, di andare a scuola, di procurarsi dei libri; e libri diversi ma pur sempre libri serviranno al capraio. Da quando si è affermata la scrittura, la cultura ha fatto passi da gigante, e con la scrittura la società ha fatto passi altrettanto giganteschi. Uno sportivo oggi potrebbe non avere bisogno di libri, ma non può fare a meno degli istruttori. Chi invece volesse studiare l'arte del cinema, non può non studiare sui libri. Ovviamente stiamo parlando di arte e non di intrattenimento. In altri termini: se io guardo certi film solo per il piacere che ciò mi reca, questo può anche essere un piacere mentale (divertimento, gusto, piacere estetico), ma non sarà mai un piacere intellettuale se non ho gli strumenti che mi servono a comprendere ciò che sto fruendo. Il cinema d'arte è spesso incomprensibile senza uno sforzo conoscitivo. Perfino i più popolari film neorealistici devono essere contestualizzati nella realtà sociale e nella visione filosofica dei cineasti, altrimenti non si possono comprendere nemmeno tecnicamente. Il cinema è forse oggi l'unica arte che ancora possa avanzare con vigore una visione filosofica in questa devastazione culturale, in questo nulla. E lo asserisco ben sapendo che anche del cinema si disse che era "morto". La musica è di certo ancora un'arte viva. Confusa con l'immondizia industriale né più né meno del cinema, la musica è ancora amata e ricercata almeno quanto esperita e praticata. Sembra che vengano caricati su Spotify circa sessanta milioni di brani al mese, da parte di artisti al 90% sconosciuti. Ma vi sono grandi opere tra queste? Probabilmente sì, ma chi le giudica? La logica commerciale è interessata e pertanto non può esprimere giudizi, ma anche gli artisti, spesso corrotti da tale logica o semplicemente dediti allo stile leggero e disimpegnato che va per la maggiore, quale critica possono sviluppare? Io vedo che anche chi non scrive musica leggera, oggi scrive musica leggera. Il nostro Einaudi, ad esempio, o il nostro ispirato Allevi. Cosa penserebbe Mozart di questi diplomati nei Conservatori? Vi invito a mischiare dei brani del giapponese Yiruma, Allevi e Einaudi, e di ascoltarli a occhi chiusi cercando di distinguerli: impossibile accorgersi della differenza! E scommetto che neanche loro saprebbero raccapezzarsi. Ma potremmo anche aggiungere a questa playing list la musica di Glass e di altri milioni di artisti. La mia domanda vertente sulla "grandezza" non sarebbe quindi aleatoria, dato che tutti questi artisti, oggi i più gettonati eredi della musica classica per il grosso pubblico, se possiamo definirli così in una formula, sono quelli che qualcuno negli anni '60 definì "minimalisti". Ebbene, quello che allora era solo un piccolo genere minore poco frequentato, oggi è il più rinomato e seguito genere musicale su base classica. Il minimalismo è nella pittura una forma di astrattismo opposto a quello espressionista, e perfino il postmodernista Johns è stato riconosciuto minimalista, tanto per dire come il nichilismo operi in modo ampio e trasversale. Glass è forse riconosciuto come il maggior esponente del minimalismo musicale; ebbene anche Philip Glass lavorò al teatro di Beckett, tanto per dire come il nichilismo operi in modo ampio e trasversale. Con la sua scarna tonalità, con la sua serialità, la sua ripetitività modulare - che formano un grigiore di cui il grosso pubblico evidentemente si accontenta - il musicista minimalista rappresenta bene il post-modernismo in musica, anche meglio del musicista techno coi suoi loop ossessivi e le sue sonorità aliene e moderniste. E lo posso dimostrare: infatti, il postmoderno non consiste nell'essere moderni ma nel contrario: nel superamento della modernità. La musica techno, invece, con le sue sonorità sintetiche ed eccessive, con i suoi ritmi duri e ossessivi non parte da un'idea nichilista ma, al contrario, nascendo come musica per ballare, in parallelo con la sua coetanea musica da discoteca fine anni '70 inizi '80, si pone come un prodotto umano e realistico, se possiamo dire così, cioè basato sulla realtà sociale e sentimentale dell'uomo, o meglio: sulle pulsioni della massa, quella cosa in cui l'uomo si è trasformato negli anni '70. Un filone del genere non è quindi elitario, asociale e astratto come invece è il postmodernismo. Che poi la techno sia diventata nei decenni sempre meno ballabile, sempre più astratta e aliena, introversa e solipsistica è possibile, in quanto anche l'artista che la produce, così come il pubblico borghese che la ascolta, costituiscono naturalmente un'umanità mutata nel tempo. La borghesia umanistica e idealistica degli anni '70 e '80 che amava le discoteche e voleva ballare, ma che ancora univa questi piaceri agli impegni etici, alla cultura e allo studio, in buona parte si è trasformata, come è stato in assoluto, nella borghesia attuale, che è reazionaria, disincantata, volgare, sterile, ubriacata dal postmodernismo e dallo spirito nichilista effuso. I rave mortuari con le loro brave droghe psichedeliche possono essere considerati in questo senso delle realtà penose che tradiscono la originaria cultura sostanzialmente umana benché tecnologica, quasi nipotina del rock'n roll, della techno; ponendosi quindi non come un dato di quella cultura originaria ma come un dato dell'acculturazione e dell'omologazione della cultura capitalistica imperativa degli anni '90. E quando l'artista non si lascia acculturare, tuttavia difficilmente non cederà, almeno un po', al senso di alienazione, disperazione e perdita generali a cui la sua musica, quasi per obbligo, deve corrispondere. E in ogni caso l'alienazione, la disperazione e, sia pure, la più folle disumanizzazione, sono tutti fenomeni moderni, non postmoderni, sono cioè legati all'uomo e alla fine di una cultura umana. La rappresentazione dei sentimenti umani della techno è dunque riconducibile alla modernità, alla nostalgia, al passato - e la sua rabbia, la sua durezza, la sua eccessività lo dicono bene così come quella sua particolare malinconia (vedi Gigi D'Agostino e anche altri musicisti techno degli anni '90). Questo filone minimalista, invece, è tipicamente postmoderno, almeno nella sua ispirazione nichilista che è dura, sterile geometricità e modularità (Eno, Cage, Schoenberg), altro che i loop ripetuti della techno! Ma i minimalisti italiani, rispetto a questi campioni americani, sono pur sempre amabili, per quanto musicalmente poveri. Non riescono mai ad essere perfettamente postmoderni nemmeno se lo vogliono, benché debitori al modulo ripetuto, e forse questo si deve proprio alla signora tradizione, c'è una forza salvifica, con il suo portato di secoli di religiosità dai canti gregoriani a Bach, che per gli italiani si traduce sempre nella melodia.     

Di Arvo Part io considero le sue opere umilmente maestose (Cantus, Salve Regina, Te Deum, ecc.) quasi un risarcimento a discapito delle sue opere più metricamente castigate e atonali (minimaliste), che sono meno umili e più intellettualistiche, quasi una dimostrazione di come lo sperimentalismo sia spesso un vicolo cieco, come lo stesso Part ebbe a dire. Ennio Morricone è un contemporaneo appartenente al genere classico, ma in buona misura è anche uno sperimentalista, un sincretista; lo paragonerei al Pasolini di Trasumanar. Grazie ai Morricone e ai Part ecco che la grande musica, procedente sulla linea di Mozart, per intenderci, ancora si muove a certe altezze e grandezze, nel "massimalismo della grandezza" potrei dire in opposizione al minimalismo. E questo è più che confortante, perché ciò significa che nonostante il postmodernismo vi sono ancora dei musicisti capaci di innovare senza tradire né distruggere né de-costruire. Questo fatto ci illude sulla possibilità di un ritorno alla cultura più profonda dell'Uomo, alla sua stessa natura; sempre che la natura umana sia umana e non disumana! Mi permetto una boutade, ma al di là dello scherzo io sono convinto che l'umanesimo non sia solo un fenomeno culturale medievale attribuibile a Petrarca, ma abbia le sue radici nel popolo e lungamente nei secoli passando per Socrate fino al momento in cui l'uomo ha iniziato a compiere il suo viaggio culturale nell'anima. So di affermare una cosa che rivolta tutta la filologia, ma la cultura umanistica del mondo, dalla Cina all'India all'Africa fino alle tribù più sperdute dell'Amazzonia, non è in fondo che un'attenzione e una cura dell'Uomo come oggetto di amore, scoperta e cultura. E' il disincanto nichilistico prima e il disamore postmodernista poi ad aver ridotto l'Uomo a quello che è: un luogo privo di amore verso niente e nessuno. Non è quindi disamando l'Uomo che salveremo le foreste e gli animali, ma il contrario. Tutti gli appelli degli animalisti o degli ecologisti contro l'Uomo sono sempre sbagliati, anche quando si tratta dell'ometto capitalistico o dell'homunculus dello scienziato venduto a Satana. L'Uomo al centro dell'universo è un concetto innegabilmente rinascimentale, certo, ma anche l'Uomo subordinato alla natura o a Dio, o a entrambe (es: Grecia antica) era pur sempre un uomo di studio. Studio nel senso lato, ovvero, ripetiamolo, come luogo di amore e cura, rispetto e conoscenza, nonché di epistemologia anche come ricerca di una definizione di Dio. La cultura europea, dal '300 ad oggi, non ha fatto altro che esaltare e sviluppare il determinato valore dello studio, ma questo si basa imprescindibilmente su una ricerca ben anteriore al medioevo, così come l'illuminismo e poi il positivismo non sono altro che due sviluppi dell'ancestrale indagine conoscitiva e cioè di ciò che chiamiamo studio. Pertanto, per estensione possiamo dire che: l'uomo che non studia non è un uomo ma si pone al di fuori del corso umano. E lo affermo pensando alla più arcaica tribù amazzone, non all'università più prestigiosa. Per conseguire quel sapere pratico che permette a certi nostri simili di coltivare molte varietà di ortaggi e di produrre veleni per le frecce, serve decisamente una volontà conoscitiva basata sullo studio.     

Tanto per tornare a degli esempi più vicini a noi e comprensibili, direi che noi sappiamo, e questo ci conforta, che Mozart e Morricone e Part avevano dietro le loro spalle anni e anni di intenso studio. Non solo di studio, ma di intenso studio. Senza lo studio dei loro maestri e dei loro contemporanei, e direi: senza lo studio della propria arte (pensiamo alle riflessioni di Part sulla sua "atonalità"), le loro opere non avrebbero avuto il valore che hanno, perché ciò che li distingue è lo stile che discende da questa auto-consapevolezza. Un artista in genere, pur non grande ma anzi piccolissimo, se vuole almeno essere vero (d'altronde Morricone, per quanto grande, non era Mozart), deve essere consapevole di sé e della propria opera. E questo vale sia per un giovane artista sia per un vecchio. Gli artisti veri si interrogano sul senso della loro arte fino al loro ultimo giorno di vita. Se il loro linguaggio è valido, se il loro stile è buono, efficace, riconoscibile, se non stiano commettendo un qualche errore ideologico o stilistico, che poi in fondo sono la stessa cosa. Non si può separare un artista dall'uomo che egli è, come non si può separare l’artista dai suoi mezzi. Come ho detto: Benedetto Croce avrebbe potuto ostacolare il fascismo e invece lo appoggiò, proprio come il grande pensatore Heidegger sostenne Hitler; tutte condotte che sono inseparabili dagli uomini che le hanno tenute. Io credo che bisogna avere le idee chiare anche per fare la minima cosa, figuriamoci per fare l'arte, che è già ambigua e pericolosa di suo. Lo studio è la formazione, la disciplina e la coscienza dell'artista. Ma mentre penso questo, penso che il cinema di oggi rappresenti l'esatto contrario, dove una massa di giovani attratti dal cinema si dicono cineasti, registi, attori, ecc. Persino il "folle" pittore detto Ligabue sapeva che aveva bisogno di lezioni di pittura da un maestro conclamato. L'arte è un campo meraviglioso dell'uomo, forse il solo che ci distingue nettamente dagli animali, se, come credo, un minimo di coscienza ce l'hanno pure i ratti. E tuttavia senza coscienza non c'è arte. Lo stesso esempio che ho portato poco fa non è quello di un folle totale, altrimenti non lo avrei portato. Sullo studio si fonda la civilizzazione umana, dagli egizi fino ad oggi. Anzi no: fino a ieri, fino al nichilismo post-moderno con cui dagli anni '80 in poi si è voluto distruggere la cultura e la stessa conoscenza. D'altronde il consumatore non deve solo essere ignorante, ma deve non essere tentato dal sapere. Il cittadino occidentale perfetto è colui e colei che non hanno voglia di studiare o addirittura hanno paura dello studio, dato che ciò significa impegnarsi e conoscersi, significa il sapere contro il piacere, significa mettere in crisi tutta una "dolce vita" marcia di volgare borghesia. Lo studio pone in imbarazzo questi giovani edonisti, i quali molto probabilmente sentono di essere come menomati. In effetti: anche soltanto alle prese con la semplice lettura zoppicano, vacillano, s'inceppano. Questo riscontro deve porli in terribile imbarazzo, poiché constatano la loro ignoranza. E per i presuntuosi è anche peggio: perché constatano anche la loro presunzione. A volte il problema dell'analfabetismo può anche essere una piaga giovanile: quando la persona, dopo la scuola, cessa di leggere per anni e quando si cimenta in una pagina complessa non riesce a leggerla o a penetrarla. Leggere, infatti, non significa distinguere le parole dall'informe, ma cogliere il significato oltre la semantica. Una lettura ancora più complessa implica addirittura un grado culturale e intellettuale che se non soddisfatto potrebbe addirittura distruggerli, questi italiani intellettuali gran chiacchieroni. Ieri notte ho cercato di leggere un libro i cui caratteri tipografici erano piccolissimi, ma questo non sarebbe stato un problema fino a due o tre anni fa, e così ho dovuto chiuderlo dicendomi, con imbarazzo, che la mia vista è calata. L'imbarazzo che ho provato è forse paragonabile a quello del superuomo che deve ammettere la sua debolezza, ma il mio sentimento è stato meno drammatico e più naturale: mi sono prefigurato immerso in una futura lettura notturna con degli spessi occhiali sul naso. 

Darwin fu il primo botanico moderno, nei suoi viaggi scriveva appunti,  e questi appunti sono diventati libri, a migliaia. Senza i libri come può darsi ciò che noi chiamiamo istruzione personale? E come può darsi la Cultura, che è un’istruzione ancora più ampia e potenzialmente illimitata? Se si vuole fare arte bisogna sicuramente leggere molto. E' impossibile scrivere un romanzo senza mai aver letto un romanzo. E se vogliamo addirittura scrivere un romanzo "rivoluzionario", o se vogliamo addirittura "rivoluzionare il cinema", come dice qualcuno che conosco, allora non dobbiamo solo leggere ma studiare. Con l'osservazione possiamo forse arrivare a realizzare alcune buone sequenze, o un piccolo video carino, o un documentario montato bene, fluido, onesto, piacevole, privo di errori tecnici; ma per dare un apporto serio al cinema ci vuole molto di più. Per dirsi cineasti non basta aver visto diecimila film, come sono capaci di fare tutti, piuttosto bisogna saperli leggere. A meno che non parliamo di filmetti intrattenitori o dozzinali, ma noi non stiamo parlando di quelli. E aggiungo che per leggere i film non basta sentire cosa ne dice il regista nell'intervista su youtube, e nemmeno basta leggerne la recensione migliore e più dettagliata che esista; bisogna, invece, prendere in mano libri e libri di ogni sorta, per avere chiavi di lettura che aprano le invisibili serrature tra le cose. Questo vale anche per la minima realtà di un bruco che teniamo in mano, e anche questo esempio mi viene da un'esperienza recente. Ho visto bene come si agita il piccolo bruco degli ulivi nella nostra mano, con quella sua camminata particolare, con quel suo colore mimetico; avrà paura o starà solo cercando una via conosciuta? Diventerà questo bruco una farfalla? Se lo lancio nell'erba si farà male oppure la sua leggerezza lo proteggerà? Tutte queste cose le possiamo sapere solo studiando. “Quante lezioni per un verso”, diceva Pasolini, confessandoci quale studio immenso fosse dietro la sua poesia. Il film che fruiamo, al di là delle recensioni dei critici prezzolati, dei fan esaltati e dei blogger che, "in pillole", come si dice oggi, ci danno le loro letture, deve essere vagliato da noi sulla base di uno studio che è solo nostro, non vissuto da qualcun altro. Un percorso che abbiamo affrontato autonomamente, da solitari, con libri alla mano. "Ore e ore di solitudine" diceva sempre Pasolini. E se la solitudine ci spaventa, allora abbiamo il dovere morale di farci curare, prima di dare alla luce un prodotto artistico che sarebbe come noi: malato. E di mali ce ne sono fin troppi nella nostra società! Il punto di vista della nostra coscienza della cosa è il più importante, anche se il meno esperto. Ma per essere il più attendibile, deve anche essere il più esperto. Per essere esperti nella cultura bisogna studiare, qui non esistono capre da portare al pascolo senza passare per i libri, a meno che con il termine "capre" non ci riferiamo a noi stessi. Ma noi non vogliamo solo pascolare nel campo dell'arte, noi vogliamo avviare un processo di individuazione tra la nostra volontà e la nostra cultura. La prima è monca senza la seconda. Badate bene: non parlo di tecnica ma di cultura. E aggiungo: il primo sguardo su un film non è mai tecnico, ma è sempre complessivo, sorgente dal profondo. L’ultimo sguardo su un film è quello tecnico, derivante da una conoscenza strumentale, spesso piuttosto esteriore, legato all'estetica. Ma oggi tale principio appare ribaltato, oggi conta “l’effetto speciale”, oggi non si parla più di "poetica" ma di "estetica", e con questo termine cade tutto il necessario studio empirico-pragmatico della poetica come globalità, tutto lo studio dell'arte come linguaggio, dell'arte come "qui e ora", perdiamo cioè tutte le lezioni di Eisenstein, le lezioni sul linguaggio di Wittgenstein, tutto l'approccio sia pur materialistico e un po' datato di Walter Benjamin. I libri di questi tre autori, soprattutto Benjamin, sono letture fondamentali per gli artisti.  Benjamin ci insegna proprio che cosa significa il tempo storico nell'arte (hic et nunc). Ci insegna a ragionare sulla percezione sensoriale, e il cinema è forse l'arte più percettiva in assoluto (quel cinema che Benjamin ha solo visto nascere). Ci insegna come evitare di fare un'arte che serva il fascismo, potrei riassumere, ovvero contenente tutti quegli elementi irrazionali e retorici (il magico, l'esoterico, il mistico, il misterico, il feticistico, ma oggi potremmo aggiungerne molti di più) su cui potrebbe darsi una restaurazione neonazista. Questa ultima frase è ovviamente una mia interpretazione estesa ad oggi del vecchio Benjamin morto durante il nazismo. Una riflessione sull'arte che oggi è diventata necessaria e doverosa, dato che l'artista di oggi, sia pure irrazionalmente e inconsciamente, è spesso complice del potere peggio di D'annunzio e Marinetti! E lo è perché noi stiamo tutti subendo una restaurazione fascista pianificata a tavolino. “Effetto notte” di Truffaut denunciava proprio questo, il trucco, la menzogna, il raggiro, la finzione, il nesso retorico, l'ideologia della retorica; ed ecco che oggi il cineasta ha ripreso a falsificare l'arte e a raggirare lo spettatore peggio di prima, intervenendo con il mezzo informatico sul suono, sulla luce, sul colore, sulla tessitura dell’immagine, sul montaggio, e non è solo una questione di analogico e digitale. Certo, senza il digitale sono impensabili certi film immaginari o di fantascienza in cui è tutto girato con la tecnica del "performance capture", ossia dove gli attori sono vestiti con tute cosparse di sensori che il computer rileva e usa per trasformare quegli attori in personaggi immaginari (vedi il film Avatar). Da Truffaut al truffare non c’è solo un gioco di parole ma una nichilistica realtà dei nostri giorni, un fascismo commerciale, un'industria cinematografica che è anti-cinematografica, un lavoro in post-produzione che abbatte i costi ma anche il cinema, o potremmo dire: lo de-costruisce, secondo un pragmatico abominio alla Derrida dove una logica post-modernista permeata di nichilismo si applica a una grande arte, vi cala sopra come un condor, o come una grande mano ignorante che la afferra. Il problema centrale, però, non è più "l'industria che getta denaro negli occhi" dei cineasti, ma gli stessi cineasti che avanzano sulla loro ignoranza. Ignoranti che sanno a malapena suonare lo strumento, ma non sanno leggere le note e non si sono sottoposti alle dovute, tante, tantissime lezioni. Ed ecco che questa menzogna restaurata, riportata in auge dopo la grande stagione intellettuale del Neorealismo e della Nouvelle vague coi suoi Cahiers du cinema, sorvolando su maestri come Benjamin e Eisenstein e in spregio dei Lukacs e dei Barthes, è metafora stessa della menzogna politica e sociale in cui viviamo. 

Noi abbiamo il dovere, sia quali fruitori semplici sia, a maggior ragione, quali artisti, di andare al di là della nostra parziale visione, di quella ignoranza da cui nasce la nostra piccola visione. Ieri ho avuto una discussione in famiglia proprio su questo punto. Mio nipote ormai ventenne, quindi non più adolescente, ormai marciante sulla scivolosa terra di transizione tra l'adolescenza e l'età adulta, come appassionato di cinema e già autore di alcuni piccoli video vorrebbe studiare il cinema, ma al contempo si rifiuta di frequentare una scuola e si propone di studiare da autodidatta. Apriamo dunque una parentesi sullo studio del cinema, arte che mi sta a cuore forse più della poesia. Un'arte complessa dove la grammatica e la linguistica sono semiotica, antropologia, ideologia, politica, filosofia, scienza, tecnica e tecnologia molto più di quanto potrà mai esserlo la poesia, ammesso che oggi ci si ponga ancora il problema della poesia. Pur tuttavia, a mio avviso, studiare il cinema non significa necessariamente dover andare a scuola. E qui non porto come esempio di cineasta autodidatta il sig. Tarantino, che non è certo un grande autore di cinema né un teorico, ma potrei portare gli esempi di Pasolini, Ferreri e Fellini indiscutibilmente più alti sotto ogni profilo. Io sono convinto che lo studio autodidattico possa dare anche frutti migliori di quello accademico, ma di solito gli autodidatti studiano più di un medio scolaro, se non altro perché temono di essergli inferiori. Per la poesia è molto diverso: ammesso che oggi qualcuno voglia imparare a scrivere una poesia, non esistono corsi del genere. Nemmeno l'Università contempla tale eventualità, ma ci offre per giunta un insegnamento confuso della poesia, e lo dice uno che ha dato alcuni esami per poi passare allo studio autodidattico. L'Università è un calderone in cui Dino Campana si mischia a D'annunzio e Penna si mischia a Ungaretti secondo vecchie categorie acritiche e apolitiche dominanti, e dentro una grande ingiustizia e un disegno opaco. Del resto l'Università sa benissimo che non diventeremo poeti grazie a lei, che al massimo saremo dei critici o degli storici, e che anche tali figure sono tramontate. Benché la poesia sia, in effetti, un'arte che potrebbe essere insegnata specificamente, tanto è colma di nozioni che dobbiamo sapere se vogliamo esprimerci in poesia e non solo comprenderla. Mi piacerebbe che ci fossero "corsi di formazione dei poeti", io li chiamerei così. Esistono oggi corsi di "scrittura creativa", ma conosco gli scrittori che li hanno frequentati e soprattutto una giovane scrittrice torinese, rampante quanto illeggibile. La poesia, del resto, non è come il cinema: non dà sbocchi di lavoro, e non è mai tecnologica nemmeno quando diventa videopoesia, poesia visuale o altro. Il Movimento "Ex-poesia" di Bilbao (siamo negli anni 2008-2021) -  a cui presi parte nell'anno 2008 -, a questo riguardo è un laboratorio di artisti che ha ben poco a che vedere con la poesia, e si può associare alla poesia visuale e al neo-futurismo italiani degli ultimi decenni. Ma se vogliamo parlare dello studio della poesia, allora posso affermare con forza che solo un “poeta domenicale” non è interessato a tale studio, poiché la sua intenzione è povera (ludica, vanitosa, retorica, ecc.), o magari è vittima di una lezione di troppo su D'annunzio. Il poeta vero, invece, oltre che leggere e mangiare poesia - che in questo sono tutti capaci pur non essendo poeti, proprio come per i film visti "esternamente" che abbiamo detto prima - sente di dover conoscere tutta la poesia del mondo o quasi, e per farlo si procura i libri. Sul pano pratico lo studio della poesia potrebbe anche essere svolto interamente su internet, il che è uguale, ma non credo esista un poeta che non abbia mai preso in mano un libro di poesia. La tecnica della poesia è in realtà poca cosa, e spesso fuorviante, tuttavia non si può dire di conoscere l'Onegin di Puskin senza conoscere il tetrametro giambico, che è un metro solo russo privo di omologhi italiani (su ciò rimando a un mio piccolo trattatello esilarante su detto metro che ho scritto anni fa ed è rintracciabile sempre sul mio blog). Noi possiamo apprezzare Dante anche senza sapere nulla dell'endecasillabo e della sua famosa terzina, mentre per il cinema questo non è possibile con i grandi cineasti. Anche il cinema "elementare" di Fellini consta di una grammatica, di una metrica, di una tecnica insomma, che non è neanche vagamente comprensibile "esternamente". Allego qui un link che ci invia alla recensione che fece Pasolini de La dolce vita, su cui sfido chiunque a comprenderne il significato ( http://pasolinipuntonet.blogspot.com/2012/05/la-dolce-vita-per-me-si-tratta-di-un.html ).

E' vero che anche per la poesia vale lo stesso principio: lo studio, e che non possiamo comprendere se una poesia è stata creata con il metro del "falso alessandrino", per fare un esempio, se approcciamo con uno sguardo "esterno", da ignoranti, insomma. Tuttavia, la nostra ignoranza tecnica e storica, non ci impedisce di comprendere globalmente la poesia, che si dà soprattutto sul piano verbale. Il senso, cioè, è sempre nella semantica, non nella metrica. L'unica eccezione può essere la poesia neo-avanguardista che abbiamo nominato sopra, dove la struttura ha un suo senso, così la disposizione spaziale del verso (vedi i calligrammi ecc.), o la poesia fusa con la tecnologia, ma qui il discorso va oltre la poesia. Invece, con i grandi cineasti, che siano consapevoli o no della loro arte, il cinema diventa una materia molto molto complessa, dove l'endecasillabo e la terzina contano enormemente ai fini dell'opera e della nostra fruizione. Potrei anche sostenere che solo un esperto di cinema può davvero capire il cinema in ogni suo aspetto. 

"1) L'inquadratura e i movimenti di macchina creano sempre intorno all'oggetto una specie di diaframma, che ne complica e rende il più possibile irrazionale e magica la sua immissione e la sua concatenazione di rapporti con il mondo che lo circonda. Quasi sempre, all'attacco di un episodio, la macchina da presa è in movimento, e i suoi movimenti non sono mai semplici: paratattici, come si direbbe parlando di letteratura. Però, spesse volte, succede che nel contesto dei movimenti di macchina si­nuosamente e parenteticamente subordinati, si inserisca brutalmente una inquadratura semplicissima, quasi do­cumentaria: una citazione di lingua parlata... Si veda per esempio l'arrivo della diva all'aeroporto di Ciampino."

  (estratto della suddetta recensione de La dolce vita fatta da Pasolini)

La metrica, il ritmo (trocaico, giambico, ecc.), le rime (alternata, incrociata, ecc.), le mille figure retoriche e ogni dato tecnico non sono così rilevanti quanto la consapevolezza che deve avere un poeta circa la ragione e la storia della poesia, la sua evoluzione, le sue diramazioni, i suoi sviluppi, come si dice. L'auto-consapevolezza si basa su questa generale consapevolezza. Ma a parte la poesia, un genere letterario quasi sepolto, coltivato solo da certi poveri cristi come me che non riescono a non portare quella croce, il cinema è invece arzillo più che mai, con mille festivals super-pubblicizzati e premi conferiti a quello e a quell'altro artista che vi ha partecipato.  Qualcuno l'ha definito la seconda industria americana, dopo le armi. Ma non sarà un'arma anche questa? Sotto il dittatore Augusto l'arte divenne "programmatica", come si dice, cioè autocelebrativa e propagandistica. Spille, cammei, dipinti, monumenti, ecc. Sotto il nazismo e il fascismo gli artisti vennero incaricati di esaltare la dittatura. Sappiamo che fine fece il povero Osip Mandelstam solo per aver scritto in una poesia che le dita di Stalin assomigliavano a delle salsicce. Quello stesso Stalin che censurò costantemente Bulgakov fino alla depressione. Ebbene, oggi, il capitalismo, per sopprimere i suoi avversari non li deporta nei gulag né li censura (eccetto i duri oppositori come Michael Moore), ma anzi li scrittura, li assolda nella sua produzione, sottoponendoli non di meno a un attento e costante controllo fin dalla scuola. La conseguenza è che dalla formazione di stampo specialistico del cineasta, che è riduttiva, schematica e tecnica (Marcuse accusava già tale unidimensionalità), passando poi ad una esecuzione del film su cui vige la divisione del lavoro (sceneggiatore, regista, fotografo, ecc.), il prodotto finale è idealmente un'opera che sottostà a una logica aziendalistica speculare e complementare alla volontà del potere. E' ovvio che questo paradigma di fondo un intellettuale, abile, furbo cineasta può piegarlo ai suoi interessi divergenti, ma dove potrebbe darsi una critica forte, una riforma o addirittura una rivoluzione del tristissimo cinema americano industriale di oggi (in cui spiccano i Tarantino e i supereroi), potrà mai questo cineasta superare lo scoglio del controllo della produzione? No, l'industria bellica del cinema americano non lo permetterebbe. A questo scopo Robert Redford ha creato il Sundance Film Festival, dedicato al cinema indipendente, e cineasti come Matthew Porterfield (che nessuno conosce, nemmeno negli USA) e tantissimi altri come lui, dichiaratamente contro il livello industriale, i quali si rifanno addirittura a registi marxisti come Pasolini, possono avere un riscontro sociale. Porterfield ha presentato il suo penultimo film al festival di Berlino e il suo ultimo al San Sebastian. Questi registi americani evitano sistematicamente i "fittizi" festival ufficiali, come li chiamerebbe Michael Moore, un altro regista che per più di un decennio è stato ignorato dalla sfera ufficiale finché non potevano più tenerlo fuori. Il cinema è la sua varietà espressiva, senza la quale non è più corrispondente alla sua natura. Se pensiamo ai film molto diversi che furono presentati negli anni '60 soltanto in due paesi come Francia e Italia, figuriamoci in un continente come l'America del nord! Chissà quanti talenti, geni e intellettuali, o anche semplicemente quanti onesti artisti e artigiani del cinema possono esserci in una terra così ampia e istruita. Redford, a mio avviso, non è neanche in grado di comprenderli. Ma gli Antonioni e i Fellini, i De Sica e i Bresson, i Godard e i Truffaut statunitensi non verranno mai fuori se non cesserà l'oppressione che stanno vivendo. L'oppressione di Tarantino, dei Linch, dei Kronenberg ecc., sperimentalisti fittizi, geni fittizi o che per sopraggiunta età non hanno più niente da dire (Linch di oggi rispetto al Linch di "The elefant man" ). Un'industria in cui commercio e cultura si identificano e per cui vale la frase "industria culturale" coniata ne "La dialettica dell'illuminismo" dai filosofi Adorno e Horkheimer. Il cinema è oggi un immenso panorama di artisti che si esprimono con questa arte, e posso capirli perché io non sono cresciuto con una telecamera in mano mentre molti ventenni di oggi lo sono. Per quanto sia un'arte giovane, appare stranamente molto matura, forse per via del fatto che grandi menti si sono consumate nel cimentarvisi e nel teorizzarla. Con la musica, invece, è quasi impossibile trovare uno studio approfondito. Ma anche la più semplice recensione su Arvo Part o su Morricone non esiste. E la stessa cosa vale per il teatro contemporaneo. Mentre constatiamo la presenza di un'infinità di attenzioni rivolte al cinema, sebbene spesso siano alquanto superficiali. Sembra quasi che solo il cinema sia oggi veramente vivo e vissuto, quasi a dispetto del teatro, che è completamente decaduto, e anche della musica, che i discografici stanno consegnando, come pongo da plasmare, nelle mani della televisione, fermo restando però quel che abbiamo detto sull'intervento salvifico di internet, la cui apertura e il cui servizio "a domicilio"(come direbbe Levi-strauss) sono due elementi di resistenza nella guerra dell'artista contro l'industria culturale. L'anonimo cineasta che ho eletto come esempio qui sopra, Porterfield, ha frequentato un istituto d'arte newyorkese con specializzazione in cinema. E questa potrebbe essere la risposta al problema di mio nipote: i film di Porterfield (della mia generazione,nato nel 1977), che non solo non sono convenzionali ma addirittura obbediscono all'imperativo categorico del regista di essere un "indipendente".  

Insomma, questa arte che è così complessa e impegnativa, non richiede forse uno studio che sia adeguatamente complesso e impegnativo? Credete che basti vedere un film e poi un altro, magari con un occhio chiuso dal sonno, per essere dei registi? Creare una situazione ributtante per essere Gaspar Noé; dare un crick sul viso di Uma Thurman per essere Lars Von Trier che vuole rappresentare la violenza d'oggi; imbracciare una telecamera scadente e gettare via quella migliore per essere David Linch, ecc. è possibile che lo sperimentalismo cinematografico odierno si riduca a questo? Ovviamente no. Questo è solo ciò che vogliono farci vedere come cinema sperimentale. Evidentemente, anche qui, sono i produttori (che oggi coincidono con i politici), a decidere quali registi presentare per fare effetto sulla platea (una volta si diceva "dare scandalo"), per far parlare quel certo festival, per attrarre il grosso pubblico (come lo chiamano loro);  un consumatore incolto che dovrà versare i suoi affascinanti denari al botteghino. Se non fosse questo lo stato dell'arte, non sarebbe possibile dare decine di Oscar a un regista come Quentin Tarantino. La sceneggiatura di Pulp Fiction è l'ultima cosa che vorremmo annoverare tra i film del cinema d'autore. Negli anni '60 i registi erano capaci di mettere a ferro e fuoco il festival di Venezia, e infatti avvenne. Oggi possiamo aspettarci prese di posizione simili soltanto da registi non occidentali, a parte Michael Moore, che si è fatto sbattere fuori dalla sala degli Oscar. Il regista iraniano Farhadi, sempre per rispondere alla politica di Trump, non si è presentato agli Oscar e ha inviato un messaggio antirazzista che è stato letto pubblicamente. Farhadi oggi è parte della giuria del Festival di Cannes edizione 2022. 

"Il cinema può catturare le qualità umane e abbattere gli stereotipi e creare quell'empatia che oggi ci serve più che mai"

   (Farhadi).

Il nichilismo in arte è un serpente anche vistoso. Pure esplosivo, quando vuole esserlo. Ma in ogni caso è sempre socialmente e politicamente disimpegnato, soprattutto quando investe sulle emozioni del pubblico (vedi i cineasti del neo-estremismo parigino degli ultimi anni: Ozon, Breillat, Dumont, Noé e tantissimi altri). Ed è proprio per questo che alla fine porta, meglio dei prodotti di intrattenimento, il suo messaggio nichilista. Il sensazionalismo è solo un obiettivo fittizio, così come la celebrazione dell'insignificanza o l'esibizione del dolore, perché in realtà la sofferenza e l'autolesionismo del protagonista, le droghe sbandierate, il sesso violento e pornografico ripetuto come un modulo, la deturpazione e la profanazione dei corpi sono tutti giochi di un cinema infantile e ignorante che spesso prende le mosse dal peggiore cinema americano (horror, porno, ecc.). Anche le rivisitazioni di Kronenberg e di Salò di Pasolini sono solo pretesti. Questo cinema francese è nella sostanza vera alieno, né americano né nulla. Il cinema mediorientale e cinese, che noi in parte conosciamo perché specialmente negli anni addietro qualche ottimo film trapassava la cortina dell'industria (da ultimo ho visto L'insulto, un ottimo film di un regista libanese), hanno un'estrazione culturale che non è piccoloborghese e si vede, così come si nota l'arte e la cultura che li presiede. Noi, invece, con questo cinema sensazionalistico francese, o con quello italiano dei cinepanettoni e delle commedie sempre più futili, non facciamo che cadere e cadere. Anche quando in un film critichiamo la figura dell'italiano medio, in realtà lo inseguiamo, lo adoriamo. La forza della potenza consumistica è una malìa che ricorda le sirene di Ulisse e molti artisti ne sono soggiogati. Sirene che non cessano mai di cantare. Ma quando una mente integra prende in mano un vero libro, che io vedo ad esempio in Dostoevskij, ecco che quelle sirene mediocri e corruttrici, rispetto alle superiori sirene illuminanti e corroboranti del grande autore, non solo cessano di cantare ma potrebbero restare mute per sempre. Questo è avvenuto a me quando ero adolescente e lessi "I demoni", "Umiliati e offesi" e "L'idiota". Ma la società odierna, molto più nichilista e rafforzata, ovviamente ha un'influenza più forte sull'occidentale contemporaneo, basti pensare che recentemente a Roma la massoneria ha aperto le porte ai giovanissimi scolari di un liceo romano e un insegnante di questo liceo ce li ha portati, con tanto di anziano massone a far da guida. Vedendo le foto su internet mi sono sentito rabbrividire. Questo viaggio all'inferno, perché di questo si tratta (vi rimando al mio video I demoni sul denaro, fruibile sul mio sito), con tanto di Virgilio e Dante, non era pensabile quando ero adolescente io, alla fine degli anni '80. 

Cantando, certe sirene chiamano l'intimo, depressivo, effuso, destrorso nichilismo dell'uomo attuale. Mi piacerebbe conoscere le opinioni politiche di Tarantino, Von Trier e dei registi del neo-estremismo, ma credo di conoscerle già. Essendo questo lo spirito dei tempi, non c'è nessuna opinione politica che possa contrastarlo, perché non si dà come opinabile. Non è nemmeno un pensiero ma l'essenza del dominio, anzi: è il fiato irrazionale e recondito che spira dall'intero mondo capitalistico occidentale. E dunque il nichilismo è anche il substrato del pensiero di centro-sinistra, ossia di quel pensiero che ha sposato il peggiore capitalismo della storia. Solo uno spirito può combattere un altro spirito, come il profumo dei gelsomini che soppianta quello dei mimosi. Una posizione opposta, diciamo di sinistra solo per capirci ma potrebbe anche non discendere da Marx, sebbene l'opposto di Nietzsche sia Marx, presuppone uno scandalo totale, una globale rinuncia, una palingenesi. Il regista indipendente che sceglie la strada dei Festival locali, dell'autodeterminazione di internet, dell'autoproduzione e autodistribuzione si condanna a un calvario meraviglioso, ma soltanto vie come questa permettono di "annullare" la cultura dominante, determinando la cosiddetta controcultura. Una via che si può esperire solo muovendo da una base solida: un grado di conoscenza eccezionale da cui discenda un grado di coscienza eccezionale, e una coerente azione. In questo senso studiare significa una continua analisi della cultura e del potere, e sempre una traduzione della lotta in coerente azione mediante i mezzi artistici. 

Ma se l'attenuante della giovane età può riguardare un giovane “figlio” del 2000 (che tuttavia non è più quello di Turgenev) - come mio nipote ventenne, artistoide che sta masticando ora queste nozioni - , non può però attenuare le responsabilità di noi adulti, che dovremmo respingere con tutte le nostre forze questa industria culturale e tutte le sue immondizie. Tra queste c'è anche il neo-estremismo cinematografico molto applaudito dai francesi, giocato sull'insignificanza, sull'emotività del pubblico e sull’ormai tipico e desueto procurare shock alla borghesia, la quale è già in sé, dopo decenni di mostruosità, un'umanità distrutta dai traumi. Tutto un cinema piccolo e mostruoso che si vuole espressionistico, violenta espressione di un mondo interiore (gli stessi cineasti vi manifestano la loro sofferenza, il loro disagio, la loro tossicomania, ecc.), ma non senza contraddizione, infatti, quel pugno tirato allo stomaco del pubblico ( depositario di un mondo orrendo e violento) in realtà non oppone un'altra coscienza e un'altra cultura (che per essere opposte devono essere palingenetiche, come abbiamo detto) ma oppone la stessa cultura, la stessa coscienza borghese, con tutte le stesse mostruosità prodotte dalla borghesia. La pornografia è qui usata non per smascherare la pornografia, ma per esaltarla, tant'è vero che lo stesso Von Trier è un pornografo, la sua casa di produzione cinematografica produce film porno. Questi cineasti sono come dei piccoloborghesi fanatici della loro estrazione sociale, che è mostruosa e avalla le peggiori mostruosità. E lo fa anche mediante i loro film. L'elemento irrazionale, portato fino all'irrazionalismo, tradisce qualsiasi sperimentazione, tant'è che, insistendo ossessivamente sul pedale dell'emozione, questo cinema non fa altro che abolire la ragione, proprio come con le droghe abolisce la lucidità. Il potere fa la stessa identica cosa. Non posso immaginare lo sforzo che abbia fatto Bresson nel concepire il suo Curato di campagna o il suo Condannato a morte, due figure così cariche di sentimenti ed emozioni per via della loro vita al limite ma che tuttavia non cadono mai nel pathos, nel dolore puro, nell'enfasi di un'emozione. In "A bout de souffle" Godard fa dire al suo lucido protagonista: "il dolore mi fa schifo, è un compromesso". Questa cinematografia francese d'oggi, invece, che si vuole dolente, trasgressiva, decadente in realtà sfrutta schifosamente i tòpoi patetico e drammatico, seppure fittiziamente desublimandoli e decostruendoli.  E la critica francese applaude. Con lo stomaco sottosopra, emette un sorrisetto ironico. La critica francese ufficiale ha applaudito persino a La casa di Jack di Von Trier, ponendolo tra i dieci migliori film degli ultimi anni. E’ un guaio che la critica svenga a queste e altre provocazioni banali, decretando addirittura come un nuova forma di "impegno" questo facile e piuttosto stereotipo cinema disimpegnato. In questo modo non rende un servigio nemmeno a Von Trier, che è visibilmente confuso, stilisticamente decaduto, clinicamente depresso, creativamente e intellettualmente inaridito, e qualcuno dovrebbe dirglielo. Ho ascoltato delle reazioni molto intelligenti di persone che erano presenti nella sala del festival francese in cui sono stati proiettati certi film, ebbene non erano per niente scandalizzate, ovviamente, essendo più intelligenti dei cineasti; erano però sinceramente indignate, anche molto arrabbiate, perché dall'importante festival francese si aspettavano una selezione critica, si aspettavano il CINEMA e non un'invasione di stronzetti teppistici o roba simile. Un cinema, questo nichilistico, che per contestare il conformismo conferma peggio di altri lo status quo (come del resto solo il dichiarato nichilismo può fare, e ciò non ci meraviglia, data la sua paradossalità, che qui sopra ho spiegato in ogni modo ). Un cinema dove ritroviamo la vecchia estetica crociana ma posta su una tabula rasa: quel deserto di scrupoli intellettuali ancorché morali da cui l’emozione più cieca e irrazionale prende il sopravvento. In un'intervista Noè dice di essersi ispirato a "Salò" di Pasolini, ma sono sicuro che il regista argentino naturalizzato francese non sa nulla della posizione ideologica e culturale del film pasoliniano, come esso sia una riproposizione della violenza del potere consumistico (nel corpo dell'ultimo fascismo decadente) con la sua manipolazione dei corpi, e come l’ispirazione fondamentale del film sia dantesca e desadiana con tutto ciò che da questo dato possiamo immaginare prendere corpo. Quest'ultimo film di Pasolini è,a mio avviso, una dichiarazione di guerra allo stesso decadentismo, da parte di un autore che da tempo ormai incitava ad abbandonare Rimbaud "per essere finalmente cittadini"(cito a memoria). 

Lo sperimentalismo cinematografico che si soddisfa nel piacere della distruzione/decostruzione o nel piacere estetico non è che un parente delle neoavanguardie per come le conosciamo: esperimenti fatti di giochi di parole, paratassi, sarcasmo, distruzione della metrica tradizionale, dello spazio tipografico (nel caso del cinema: giochi di sequenze e inquadrature, rottura e rovesciamento della continuità spazio-temporale, montaggio franoso e ossessivo, ecc. ). Le neoavanguardie sono sempre consanguinee o direttamente imparentate se si tratta di distruggere e usare il sarcasmo borghese, e sono sempre debitrici del nichilismo. "Distruggere" era il motto di Marinetti quanto di Sanguineti e Balestrini, ma anche, sebbene inteso diversamente, dei loro avi avanguardisti Aragon, Artaud ecc. Ma la poesia surrealista o il teatro della "crudeltà" non miravano ad annichilire il pubblico, bensì a stimolarlo, a interessarlo, a coinvolgerlo per spostarlo dal conformismo verso altre condizioni. Brecht non usava la crudeltà ma lo straniamento. Col futurismo italiano, invece, siamo di fronte alla stessa ipocrisia borghese ma riproposta sotto mentite spoglie. Con la neoavanguardia del Gruppo '63 e poi '93 e con l'intero movimento neofuturista italiano degli ultimi decenni siamo di fronte a un prodotto simile a quello storico. Non veri interventi riformistici o anticonformistici, che presupporrebbero opere progressiste, ma tutto un magma di poesie illeggibili, dubbi matrimoni tra pittura e tecnologia, tra poesia e videogames, e sempre in qualche modo nel nome del fascista Marinetti. Insomma, rivendicando una pretesa "libertà da canoni", che invero non esistono più (neanche la tradizionale poetessa Valduga è poi così canonica) o dove sono non costituiscono certo il vero problema dell'arte di fine '900, così minata dal consumismo,  ecco che l'ultima e "nuova" offensiva dell'arte in Italia alle soglie del 2000 si è proposta soltanto questo misero sperimentalismo di giochi e videogiochi. E il potere consumista sapeva e sa benissimo quanto la spinta autolesionista, postmodernista, nichilista di questi artisti poteva e può allontanare dall'arte non solo il grosso pubblico ma gli artisti medesimi. Un'offensiva che è stata nuova quanto è nuovo Apollinaire, moderna quanto è moderno Marinetti. E non nomino con facilità questo nome, che tra l'altro detesto, ma lo devo nominare perché Marinetti è forse la minestra riscaldata più pericolosa che abbiamo avuto in Italia nella nostra storia, permeando di sé gli ultimi decenni del Novecento fino a oggi. E' da non crederci, eppure il futurismo italiano viene perfino rilanciato dal Gruppo '93 (araba fenice del Gruppo '63), con a capo un Balestrini che attrae a sé vari artisti operanti dagli anni '90 in poi. Insomma: il marinettismo, con le sue pose, i suoi giochetti e con la sua pochezza letteraria ha attratto a sé interessi diversi da parte di movimenti moderni diversi e forse ancora oggi continua a svilupparsi negli artisti italiani. Dico questo pensando alla Poesia concreta italiana di fine '900 ( Belolli quasi dichiara di essere marinettiano) e alla Poesia visiva sempre di fine '900 ma con strascichi almeno fino al 2015 (penso alla "poetessa" Davinio). Due movimenti, questi, che in realtà non hanno una vera identità di movimento ma galleggiano quasi dispersi in un mondo artistico nebuloso privo di una teoria e di una critica. Un mondo di artisti che spesso usano la tecnologia in senso nettamente postmoderno, ovvero come orfani dell'arte, che prendono le mosse dalla videoarte degli anni'70 per sfociare in una presunta arte della poesia unita alla tecnologia, così come pare sostenere la Davinio con "Second Life".  Artisti che da una parte ricordano gli sperimentalisti di Ex-poesia di Bilbao, ma con la sostanziale differenza che gli artisti baschi (es. Fundacion Rodriguez) non vogliono essere orfani della poesia, non vogliono ucciderla o superarla, quindi la fusione della poesia con la tecnologia non è annichilimento della prima a favore della seconda, né un nuovo corso della tecnologia come invece è Second life: videogioco per imprenditori e politici. 

Permettetemi dunque una teoria conclusiva che sembra forse una profezia ma in fondo non è che un umile tirare le somme. Io credo, e qui mi rivolgo direttamente al giovane artista italiano di oggi, che lo "sperimentalismo nichilista" di oggi e domani, che va al di là della tentazione fascista ma la ingloba e la usa pro domo sua, sarà probabilmente un'abiura più o meno cosciente dell'afflato nichilista (estetista, decadente, futurista, ecc.) per un nuovo spirito di necessità, in buona misura simile al movente neorealista di "ridare l'uomo alla storia"(Pasolini). Questo artista del futuro, ma non futurista, sentirà tutta l'esigenza di una rivoluzione in senso classico, tradizionale, politica, sia pure apparentemente a-politica; e perfino morale, per quanto apparentemente a-morale. L'artista futuro (che potrebbe già esistere oggi: vedi il cinema indipendente americano), muoverà su altre scale di valori, secondo una cultura che non possiamo ridurre a quella umanistica tradizionale né lo vogliamo. Sarà lucido, non sarà nostalgico. L'artista vero, cioè colui o colei che vorrà fare arte, sentirà il bisogno estremo (e ciò probabilmente si esprimerà certo anche con poetiche estremistiche, ma che non saranno mai teppistiche!) di riscattarla dall'industria, e, prima o poi, quindi, dovrà decidere di assumere un impegno totale, schierandosi con altri suoi simili, tutti raccolti intorno a un fronte avanguardista finalmente "impegnato", progressista e rivoluzionario (non estetico, non falsamente progressista, reazionario). E vedo proprio vedendo ciò che è oggi: l'opposto: il vuoto narcisismo postmoderno, che parla di sé e lo fa anche in modo logorroico ( e lo farà ancora finché vi saranno i discepoli di Nietzsche). Vedo qui un poeta, un pittore, un performer, un regista che non sa dove andare, che rifiuta il potere ma non sa come poterne farne a meno, che non vuole compromettersi ma è pronto a piegarsi. Questo è il panorama della massa degli artisti di oggi, che prima o poi diventano "medi", fasulli, aridi, depressi, inseguendo i canoni nichilistici di questo Grande Mondo (riprendo la definizione di Balzac in "Le illusioni perdute"). E' per questo che solo una controcultura che inizi con la costituzione di un Piccolo Mondo opposto fondato su una chiara, totale presa di posizione politica in senso lato (di sinistra o di post-sinistra che sia, marxiana o no, sebbene a mio avviso c'è sempre bisogno di applicare il concetto di lotta di classe) potrà salvare questo artista vero e chiaro in sé, ma anche quello confuso, sedotto ma umiliato, sporcato. L'artista medio ma non ancora perduto galleggia in questo paradosso. Non essendo un nichilista convinto, vorrà prima o poi liberarsi da questo paradosso, e questa sarà la guerra dell'arte per la sua liberazione! Più che la piccola battaglia dello sperimentalista estremista che in fondo lotta contro se stesso in un espressionismo autolesionistico e socialmente teppistico, più che la lotta contro il pubblico ( i suoi simili), l'arte, chiara concettualmente, assumerà ben altro passo. Il passo della lotta di classe, della guerra contro quel potere che ingloba in sé gli esperimenti di questo estremismo proprio come ingloba i classici. Quel potere che ancora non è riuscito a masticare Pasolini, ma ci prova. Prima o poi vedremo uno spot pubblicitario in cui Pasolini sarà associato a un'automobile, o a un detersivo.  Una industria culturale che, ripeto, detesta ogni forma d'arte ma che, concedendo all'arte un qualche spazietto di sfogo, si cautela contro qualsiasi presa di posizione dell'artista. Una presa di posizione che io vedo imminente e urgente, come imminente e urgente è il disastro climatico. Si deve capire che i grandi premi, le grandi lodi così come le grandi stroncature non sono per un vero artista impegnato, e nemmeno per quello sperimentalista non teppista, non borghese che non conviene allevare come cavallo da scuderia. Gli artisti scomodi, gli artisti che pongono dei problemi devono ovviamente essere ostacolati, emarginati, silenziati con tutte le forze democratiche di cui il capitalismo dispone. E' per questo che l'artista dovrà studiare e studiare e studiare. Solo la sua fortissima cultura lo renderà libero e scandaloso, e questo anche a costo di rimanere anonimo. L'opera è scandalosa solo se l'artista è scandaloso, non c'è scandalo nell'arte se lo scandalo non è nell'uomo che la produce. E non c'è scandalo se non c'è cultura, se non c'è uno studio di fondo. Lo scandalo, nel senso artistico, sarà l'unico modo progressista di fare breccia nel pubblico; e ogni provocazione allora si accartoccerà come un fiore cotto. L'artista dovrebbe curare la propria immensa potenzialità scandalosa, non la pochezza provocatoria. La seconda la conosciamo: la televisione è piena di provocazioni, di pugni dati al pubblico, mentre la prima è la via dei maestri. Il potere non vorrebbe mai uccidere Von Trier o Tarantino, incassi sicuri al botteghino, mentre sta ancora cercando di uccidere Pasolini. E ogni volta che lo pesta rispunta fuori come un funghetto, fosse pure da una iniziativa di quartiere o da un sito internet. Cosa ne sarebbe di Tarantino se abolissero gli Oscar? Chi lo cercherebbe? Dove lo vedremmo? Lo scandalo potrebbe portare il pubblico fuori dagli spazi ideologico-commerciali della cultura dominante. "Le iene", la saga di "Kill Bill" e "C'era una volta..." spingono il pubblico in quegli spazi, non fanno altro. Ma questi sono solo dei film come tanti altri, né più né meno. Gli spazi ideologico-commerciali amano le spade di Kill Bill, il cinismo delle Iene, la ripetizione e la clausura, l'originalità e la novità estetico-linguistiche, la violenza e l'immediatezza di una sceneggiatura senza oscurità, senza poesia, senza allusione, senza cultura, insomma: priva di scandalo. Il Curato di campagna di Bresson, come il protagonista di Teorema di Pasolini portano lo scandalo, non la provocazione. Il curato con l'umiltà e la dolcezza, l'altro con la bellezza e la sensualità. Essi non provocano soltanto, essi rompono lo schema mentale di chi li osserva. Non danno un pugno allo stomaco, ma con il loro semplice passaggio o esempio portano un rivoluzionario messaggio al mondo. Non c'è bisogno che scendano da una montagna e parlino logorroicamente alle masse come in Zarathustra, lo scandalo, in un mondo inaridito, è la fede. In un mondo vanitoso, è l'umiltà. In un mondo borghese sessualmente castigato, sessuofobo, com'era il mondo di Pasolini negli anni '60, è il giovane sensuale. Ma oggi, nel 2022, il sesso non è più nemmeno un terreno di provocazioni banali. I registri del neo-estremismo francese possono anche farsi una doccia fredda, la realtà non è più quella degli anni '60. Oggi, forse, proprio l'umiltà è scandalosa. A mio avviso, se vogliono riciclarsi, dovrebbero cominciare a girare film umilissimi, estremisticamente umili. Perdonate la provocazione, ma la penso proprio così. La fede, la dolcezza, l'onestà... queste sono qualità ormai scandalose dell'uomo, se viste realisticamente nella società contemporanea. Del resto, in un mondo violento, non è più scandalosa la dolcezza della violenza? Non è più provocatoria la dolcezza? Ma questi estremisti della violenza non diventeranno mai estremisti della dolcezza, perché noi sappiamo che sono marci di nichilismo, e sappiamo che, in quanto frustrati, non vogliono scandalizzare ma provocare l'emozione della frustrazione. La grande musica religiosa di Arvo Part è scandalosa. La nostra sensibilità se ne rende subito conto appena la ascoltiamo. Lo scandalo che produce è perfetto: ci risveglia dalla nostra normalità, dalla nostra alienazione normale, dalla società schifosa in cui dobbiamo vivere come alienati altrimenti non sopravviviamo. Alienati dalla cultura, dalla natura, da noi stessi in quanto consumatori contemporanei ovvero gente decaduta al rango di acefala, avida e "felice" discarica del consumismo. Le Nouvelle vagues del futuro saranno probabilmente dei movimenti improntati ai valori della dolcezza, della bontà, della gentilezza, dell'amore, ecc., con tanti artisti militanti sempre più lucidi e coscienti di sé, finalmente oltre  il mito drogastico del decadentismo. L'artista del futuro smetterà anche di celebrare Marinetti, e griderà forte che le avanguardie italiane, così orgogliosamente anti-borghesi, sono sempre state schifosamente borghesi. Quando il futurismo volle espandersi in Russia il futurista Majakovskij si oppose, tanto per dire come i futuristi russi erano molto diversi dagli ipocriti futuristi - borghesi e fascisti - italiani. 

Oggi noi siamo in una situazione simile: il “criociato” Brevik dichiarò di essere stato ispirato da Lars Von Trier prima di compiere il massacro che lo rese famoso. Oggi, nel mondo delle droghe (chissà quanti critici e direttori dei festival sono drogati), io posso capire cosa significhi esaltare il tossico Noé. E posso capire cosa significhi per il nichilista, tossico Noé ( queste non sono illazioni, sono sue dichiarazioni) comportarsi come tale: significa l'incapacità di staccarsi dalle sostanze psichedeliche, che assume e conosce benissimo, tanto che le sue descrizioni delle droghe sono impressionanti e ci rivelano lo spessore intellettuale dell’uomo. Altro che Arvo Part che ci risveglia dal nostro nichilismo!  (il quale, nella fattispecie, è ravvisabile benissimo nel nostro ateismo o laicismo gretti). Piuttosto, certi estremisti borghesi - e questo è il punto più critico - fondano tutto un cinema sulle droghe! La chiamano "cultura psichedelica". Lo stesso vale per Lars Von Trier, costantemente sotto psicofarmaci. L'espressione "sotto psicofarmaci" è interessante, dice bene tutta la sottomissione di questi sedicenti provocatori a delle pillolette. Io sono convinto che Von Trier non vuole curarsi, al contrario: vuole lasciare alle sue droghe il compito di decidere sui suoi film. Ma il vero punto critico, forse, non è nemmeno questo. Il vero guaio è che questi individualisti irrazionali, questi eunuchi che ostentano una qualche virilità, poveri in creatività che esibiscono una qualche arte, depressi che sbandierano una qualche gioia (Von Trier con la sua ironia), così inattendibili sul piano artistico, condizionano la mente di una certa nicchia di persone, tra cui anche i nostri cari. Inoltre conferiscono all'arte del cinema un duro colpo, spostando così l'attenzione sociale su problemi e temi falsi. Ma qui c'entra la volontà del potere, sia sul primo sia sul secondo "guaio". Se la critica non li applaudisse le conseguenze sarebbero molto meno nefaste, eppure oggi non fanno che parlare di Von Trier e di questo misero cinema tossico. 

Contro ogni luogo comune sul connubio arte-droga, posso dimostrare che gli artisti migliori sono stati sempre i più lucidi, in tutte le epoche. Io so che la migliore arte non è stata prodotta sotto effetto delle droghe né da menti offuscate, ma dall'uragano della sobrietà. Nemmeno i poeti della Beat generation e i francesi Maledetti fanno eccezione a questa certezza, e lo dimostrano le poesie di Verlaine e Rimbaud, perfette da ogni punto di vista. La poesia "Urlo" di Ginsberg andrebbe letta direttamente dalla pagina originale battuta a macchina per capirne la costruzione meticolosa fatta della parola "who" ad ogni capoverso, che sta come un musicale battito (beat), e quando questa manca viene sostituita da parole che formano una rima interna. Sul piano strutturale i Maledetti francesi vantano addirittura uno studio rigorosissimo, una sublime e difficile metrica, ecc. Sul piano concettuale la resa dei temi trattati è razionalissima, a volte quasi con volontà gnomica, sebbene si tratti di una razionalità urlante, visionaria, infervorata, bruciante. Basta leggere le poesie "I borghesi" e "Le strenne degli orfani" di Rimbaud per capire che l'assenzio era solo un piacere marginale e ininfluente. Ginsberg stesso lanciò appelli continui contro gli oppiacei, perché le "migliori menti" avevano per lui un valore immenso e si capisce leggendolo che l'intossicazione era sì contemplata e praticata, ma anche guardata con sospetto.

Io sostengo che senza lucidità mentale e senza idee artistiche chiare non sia possibile produrre nulla di buono, o perlomeno non sia possibile costruire una grande opera. Possiamo buttare giù un verso, ma dopo esserci ripresi dalla sbornia sentiamo che quel verso non è nostro, o non è abbastanza buono. Di solito per me è sempre così, sia quando scrivo per emozione sia quando scrivo dopo aver bevuto anche solo un bicchiere e mezzo, ad esempio mentre sto cenando. Se non sono lucido come dovrei, la scrittura ne risente sempre. Lo studio stesso richiede lucidità, per questo non mi spiego come gli studenti di psicologia possano bere così tanto. Nel quartiere di San Lorenzo a Roma, presso la Facoltà di psicologia, di notte c'è un tale carnaio di corpi abbandonati a terra che per camminare bisogna scavalcarli. Forse lo studio della psicologia è frequentato da squilibrati che hanno bisogno di bere. Gli studenti di cinema non possono assolutamente permetterselo, perché il cinema specialmente richiede uno studio e una lucidità molto ampie, in quanto riunisce in sé tutte le arti. Un cineasta deve saper scrivere almeno discretamente, se vuole che la sua sceneggiatura sia compresa dai suoi partners. Ma si può scrivere anche solo una scarsa paginetta di sceneggiatura senza mai aver letto le grandi pagine della letteratura? Non si può, a meno che non parliamo di sceneggiatori mediocri. E quando anche sappiamo scrivere una sceneggiatura, il che richiede comunque lo studio degli appositi manuali, dobbiamo studiare l'arte e la tecnica del cinema: dall'idea che diventa soggetto, e forse anche trattamento, a quella grammatica minima e immensa che è l'inquadratura, con l'arte della fotografia che vi coincide, passando per i campi (ravvicinato, lungo, americano...) fino alla sequenza, al montaggio, ecc. Ma possiamo barcamenarci in questo ambito linguistico-tecnico senza esser passati per la sfera filosofico-ideologica di questo sistema di segni audiovisivo che è il cinema? L'immagine è molto più spessa di quanto si pensi, ed è sempre il frutto di un pensiero. La filosofia sovrasta sempre l'immagine e non è possibile ridurre il cinema a una cosa aconcettuale, apolitica e amorale, come fanno i nichilisti post-modernisti. Abbiamo già visto come il nonsense sia un paradosso. Infatti, il nonsense dadaista corrispondeva a una ideologica volontà di umorismo e critica paradossali, e nasceva dalla cultura e dalla consapevolezza dell'arte. Senza tale consapevolezza non vi sarebbero state le avanguardie storiche. Il cineasta ignorante di oggi, invece, quello ignorante per nichilismo, intendo, disprezzatore della conoscenza, non vuole sapere altro che il facile, impulsivo, incosciente flusso di emozioni o idee (ma sarebbe meglio definirle delle "pensate") da cui si lascia trasportare. Questo flusso lo spinge in una dimensione emozionale ed estetica, ma che non prescinde mai dall'ideologia e dalla filosofia che presiedono il linguaggio umano. Anche il suo prodotto cinematografico, quindi, per quanto innocente, sorgivo, sincero non può che essere un pensiero dato per immagini. Se io rappresento una persona che è affascinata da Hitler, lo riprendo mentre ne dipinge contento il ritratto, quella fascinazione, quel compiacimento da pittore sono tutti dati non solo estetici ma semantici. Se l'idea del regista non è nazista, tuttavia lo spettro dell'idea nazista è inseparabile da tale filmato. Il ritratto stesso si associa filosoficamente a un oggetto apprezzato, che vogliamo ritrarre perché ci trasmette piacere, altrimenti perché ritrarlo? L'ignorante nichilista non si pone certo questo problema, perché per lui non esistono problemi. Addirittura ne fa una ripresa in "soggettiva". Quello che nel cinema è il punto di vista del personaggio ripreso, il massimo della finzione e dell'immedesimazione. Il neorealismo, per dire, abolì le soggettive. La soggettiva è l'opposto della realtà che rappresenta se stessa mediante l'occhio "neutro" del regista. Anche la Nouvelle Vague superò la soggettiva del cinema naturalistico tradizionale (Hitchcock, Dreyer, ecc.) per un approccio realistico oggettivizzato. L'immedesimazione, però, è ritornata subito come uno dei primi elementi di quella restaurazione borghese che abbiamo detto e che si espleta nel catturare i sensi dello spettatore, più che il suo occhio esterno, oggettivo, pensante, razionale, messo in grado di emanciparsi. "Enter the void" di Noé è un infinito piano-sequenza in soggettiva, tanto per esemplificare quali conseguenze estreme ha conseguito tale restaurazione borghese. Insomma, questo cineasta ignorante che ama tanto la "soggettiva", e ne conosce il termine tecnico, sa però a cosa corrisponde socialmente e ideologicamente?  Sa cosa sta dicendo al mondo con questo suo film fatto interamente in soggettiva? La stessa cosa vale per la tecnica del "discorso libero indiretto" nella letteratura. Una tecnica scandalosa, quando Pasolini costrinse il lettore borghese a leggere le parole dei sottoproletari romani senza la terza persona del narratore, come se uscissero direttamente dalla sua bocca. Quasi come una soggettiva usata ideologicamente per il fine opposto. 

Oggi troppi italiani non studiano e non leggono, o concepiscono lo studio come una cosa "selvaggia", un non-studio che dovrebbe formarci. Sono come dei pazzi, fondamentalmente irrazionali, non credono nelle capacità della ragione e negano sostanzialmente il valore dello studio, e alcuni si compiacciono di sé come nichilisti. La negazione dei valori della ragione, propria del nichilismo post-modernista vince così sulla loro stessa capacità di creare un prodotto di cui sentirsi consapevoli. Ma la sensazione di inconsapevolezza si trasforma sempre in impotenza e frustrazione. Se fanno arte, persone così, non lo fanno per i motivi dell'arte, magari lo fanno perché non hanno altro, perché è come un gioco, perché ci si sentono bene, ecc., ma questi motivi non sono validi. Il dilettante eterno, il poeta domenicale, l'artistoide, l'artistino televisivo come il falso impegnato sono tutte figure che impazzano oggi nella nostra società in cui tutto è troppo facile. Ricordiamoci che anche un elementare tentativo di sperimentazione è sempre sinonimo di ricerca, studio, altrimenti, se non in relazione critica e "colta" a una tradizione di partenza, dov'è l'esperimento? Se compariamo i finali dei film "Django enchaned" e "La casa di Jack" ci accorgiamo di come siano similmente penosi. Il non sperimentale Tarantino e lo sperimentalissimo Von Trier ottengono lo stesso risultato: il nulla, la facilità. E questo è proprio quello che intendo quando dico che un'opera senza studio non è un'opera, ma un fiasco. Tutte e due i film, per quanto girati con i mezzi e gli attori più "bravi" (mezzi e attori così spudoratamente in ordine con gli schemi tradizionali), cadono in un buco nero peggio di quanto potrebbe succedere al peggiore dilettante. Domandatevi: senza questi mezzi e questi attori hollywoodiani (staff milionario, Di Caprio e Dillon) questi due film, tra l'altro prodotti in proprio, sarebbero anche soltanto guardabili? Ma a parte la "guardabilità", che non è un valore dell'arte, quale apporto danno al cinema?  

In conclusione: tutto questa immondizia d'artista è evitabile, se l'artista si curasse dai propri mali, se non cedesse alla tentazione di sublimare la propria depressione o la propria aridità, magari passeggere, con un'arte che esalta la depressione o l'aridità invece di curarle. E di certo non è con il nichilismo che l'uomo può curarsi dal conformismo. Il nichilismo è strettamente conformistico. E non è guardando dei maestri aridi e depressi che il giovane artista potrà capire l'arte e se stesso nell'arte. La conoscenza avviene solo e sempre con lo studio severo e umile, dove la linea di narcisismo e ambizione sono sani, non attengono alla presunzione, che è spesso un prodotto dell'ignoranza che ricusa se stessa. La via dell'arte è sempre il razionale, faticoso e umile studio, e questo consiste sempre in molte ore passate sui libri, sui testi più diversi. E dura tutta la vita, anche quando ci sarà bisogno degli occhiali. Questa via di umile grande studio che tiene inchiodati, è fondamentale anche per gli artisti minori. Potrei quasi dire che più l'artista è umile, più la sua arte ha le potenzialità di essere grande. La potenza dell'arte è inversamente proporzionale al superomismo dell'artista, e tanto questo è vero quanto è vero che i film cinesi e mediorientali sono spesso grandi ma umili. Quando Rimbaud afferma di "aver visto cose che l'uomo ha solo creduto di vedere" non è un povero narcisista unto da Nietzsche che parla, ma un poeta visionario che spiega l'intensità del proprio sguardo naturalmente al di sopra della media.  Ezra Pound diceva di essere "furente per via della percezione". Credete che questi poeti fossero davvero felici di tale dono? A mio avviso queste dichiarazioni rappresentano un problema: la condanna dell'uomo dotato in un mondo ipodotato. Mario Luzi diceva di "vivere liricamente le cose", e questo significa starne male più di altri. Per i poeti è piuttosto normale tale intensità cognitiva, che coinvolge l'intelligenza, non l'istinto bruto. E, se devo dire, anche per me che non sono Rimbaud né Pound la vita si offre spesso come un incubo per via della sensibilità e dell'intelligenza. Ma potrei giurare che sia la sensibilità sia l'intelligenza non sono solo doni naturali dell'uomo, di cui tutti siamo provvisti nessuno escluso, piuttosto, invece, io credo siano qualità non perfette e perfettibili. Innate in ognuno di noi, sì, ma come dei muscoli che devono essere usati e allenati altrimenti restano flaccidi, contratti, annodati. Uno studio sano e onesto, duro e costante automaticamente li sviluppa, li ingrandisce, ne migliora le prestazioni. Chi non legge non conosce le parole, eccetto quelle più o meno circoscritte al parlato. La conoscenza di una parola nuova arricchisce il nostro linguaggio ma anche l'insieme della nostra capacità intellettiva,  estendendo cioè il campo della nostra comprensione. Quando noi leggiamo un testo linguisticamente complesso potremmo non capire nulla e quindi non essere in grado di ragionarvi sopra, ma se riusciamo a comprenderlo questo significa che quelle parole hanno parlato alla nostra cultura e poi anche alla nostra intelligenza, che in virtù della cultura viene attivata e, io credo, anche sviluppata, in particolare quando le parole portano dei concetti. Se conosciamo e comprendiamo quei concetti aggiungiamo alla nostra intelligenza degli strumenti. Gli "strumenti culturali", cosiddetti, non sono altro che delle chiavi che aprono porte. Ma la mano che usa quelle chiavi è la nostra intelligenza. Lo studio è dunque anche una questione di intelligenza lucida e vivace che si oppone alla normale e opaca intelligenza congenita.  

Orgoglio e presunzione, come si può immaginare, sono sempre negativi se si frappongono tra noi e la nostra ignoranza, magari minimizzandola o scusandola. La presunzione di sapere qualcosa di cui siamo ignari, invece, non è solo negativa ma è un reale impedimento a procedere nella conoscenza di quella cosa. Questa presunzione è oggi un grave problema in ogni campo, ma lo è maggiormente in campo scientifico e artistico. Pensate a un fenomenale ignorante che presumesse di essere un chirurgo, che si spacciasse come tale solo perché ha letto su internet tutti i dettagli di un'operazione chirurgica, se un giorno prendesse in mano un bisturi e intervenisse su un povero cristo, non sarebbe forse un pazzo? Vi sono oggi molti ignoranti che si spacciano artisti e non sono meno pericolosi di un falso medico o di un falso chirurgo pazzo. Al di là delle istituzioni scolastiche, che possono anche essere erranti e fuorvianti, lo studio e la cultura non devono mai essere confusi con queste. Quello che conta, e che resta, è il fatto che lo studio è insostituibile e inalienabile, sia pure quello praticato esclusivamente nella solitudine di una stanzetta, coi gomiti doloranti sugli scrittoi, coi libri in cataste sotto i nostri occhi impegnati, cioè da autodidatti. Oggi, l'opposto di questo studio umile e impegnativo è quella presunzione che molti artisti o artistoidi poggiano in misura di quintali sul basamento granitico della loro ignoranza. A volte sembra quasi che sia la mancanza di studio a spingerli nelle braccia della presunzione, a quel delirio di potenza che sublima l'impotenza. Recenti studi hanno rivelato dei dati sessuali su Hitler che non conoscevamo. Dalla cartella clinica del superuomo è emerso che aveva un testicolo in meno e che fosse affetto da ipospadia, un disfunzione che rende il pene piccolissimo e talvolta impotente. In questo senso una carenza di studio, per un artista impegnato, non può che essere percepita come una menomazione. Ma anche la depressione, per un artista pieno di sé, deve essere una vera tragedia. Non vorrei trovarmi nei panni di Von Trier. Io ho lasciato la Facoltà di lettere perché sentivo quel tipo di studio sterile e alieno alla mia passione, che non voleva sfociare in nessun mestiere. Oggi io non posso insegnare letteratura, ma per fortuna non lo voglio. E sebbene scriva dall'età di tredici anni in modo rigoroso e costante, con il mio pseudonimo Poetainazione non volevo tanto definirmi poeta quanto darmi una riconoscibilità immediata nel mondo del web, un biglietto da visita ma anonimo. Circa i miei studi potrei dire che non ho mai letto un libro in vita mia, o meglio: che per me la lettura è sempre studio e se leggo un libro (ah quanti ne ho letti, riletti e ne ne sto leggendo tutt'oggi!) ne studio sempre la composizione artistica, il contesto storico, l'autore e la sua biografia. Per questa mia attitudine non posso vedere un film che sia di puro intrattenimento. Non ho mai cercato la fama né ho mai cercato di farmi conoscere usando strumenti che non fossero quelli naturali e leali, ed anche per questo uso uno pseudonimo e evito di mostrare la faccia. Sono convinto che tutto il mio studio e la mia arte non debbano necessariamente affermarsi ufficialmente - circa 800 poesie di cui almeno 500 sono più che valide, nove opere teatrali, cinque sceneggiature di cui solo tre sono finite e presentate nei festival, vari scritti di narrativa e anche di viaggio, le mie videopoesie e i miei video civili, e non da ultimo anche la mia musica (quattro album e il quinto sta per arrivare). Mi piacerebbe, questo sì, che le mie opere costituissero un apporto ad una controcultura da brandire contro questa cultura ufficiale, ma non mi piacerebbe sporcare le mie più pure, intime e impegnate espressioni con un mondo culturale riprovevole. Un mondo che del resto non le vuole, che mi accoglie solo se pagante (la corrispondenza con le case editrici ancora la conservo e un domani forse la pubblicherò in forma di denuncia). E' per questo che termino questo mio post con un caloroso appello agli artisti veri, lanciato da chi ha ormai quasi cinquant'anni vissuti nell'ombra: 

                               Siate più coscienti e più colti possibile, 

    studiate le arti in modo interdisciplinare e comparativo, non specialistico, 

                                   e fatelo sempre, senza sosta, fino alla fine; 

                              e fermatevi a riflettere bene sullo stato dell'arte, 

 sul contesto umano, storico e politico in cui siete inseriti, e sulla vostra opera; 

                                       e restate indipendenti dall'industria,

      se potete combattetela, sia pure con un solo verso, come Mandel'stam; 

                          tenetevi stretti e legati all'albero della vostra barca

                                              ma non cedete a quelle sirene,  

  perché la gloria per conformismo ed egoismo è gloria da conformisti egoisti,

                        complicità assurda con gli infimi aguzzini dell'Uomo, 

con il potere cannibale che sta divorando i veri artisti così come divora ogni verità, 

               cannibalismo da cui è molto facile cadere nell'auto-cannibalismo. 

      Se un domani verrà un Uomo, non scenderà dall'alto ma crescerà dal basso, 

             e non sarà mai un uomo solo, ma un movimento di fratelli e sorelle,

                una galoppante armata controculturale e per una nuova cultura 

                             che riunirà "le migliori menti di una generazione".



                                        







                                                   Nichilisti

 

 

I

 

 

Li ho ascoltati

come loro non ascolterebbero mai

Quanti futili pretesti

e come appaiono determinati,

ho letto che uno di quei sanguinari samurai

può continuare a colpire pure se privo della testa

Oh codici umani dimenticati,

quanta gentilezza persa!

Se fossi stato un tagliagole col senno di poi

avrei tagliato la gola di Nietzsche e di tutti i nichilisti,

avrei risparmiato ovviamente solo il grasso Turgenev.

Il cinema nichilista è tossico, impasticcato,

lo dicono loro stessi nelle interviste,

psichedelico, claustrofobico

è l'emozione che porta al conato

"Si vuole dare un pugno nello stomaco"

e noi dovremmo porgere lo stomaco,

entrare nella sala buia, tradizionalista,

sapendo che là dentro ci violenteranno

e allora, se amo sempre più la vecchia scuola,

in cui ogni atto violento era simboleggiato

tanto che il Decameron non inizia con una pietra che spacca la testa

e l'accetta nel film L'argent con quel sangue sul muro sventagliato  

quando nelle scene "di sangue" il sangue non c'era

era sufficiente un uomo atterrato

un uomo che si affloscia come un sacco

a dimostrare, contemporaneamente, il nostro ego-sacco

insomma, se amo sempre più... , è per questo

se dentro fiorisco, se dentro cresco

Ma tutto è poi mutato con Dario Argento

e quella scuola nichilista, quella barbarie innalzata,

violenza e sangue come gli scacchi di un tempio

in cui l'intelligenza non ha accesso,

tempio nell'atto di esser trasformato in mercato

e dentro, coinvolto complice esiliato ammutolito, Gesù Cristo

Una piccola opera che ha travolto le "grandi opere" (Elsa Morante)

il piccolo pensiero che spazza via il grande

e lo spettatore, sempre più spettatore, ridotto

e il consumatore, sempre più consumatore, condannato

Torture da Santa Inquisizione contro la strega lntelligenza

la strega Bontà, la strega Carità, la strega Gentilezza

tutta la Valpurga piroettante e scoppiettante dell'Uomo

e tutto un Malleus maleficarum contro l'Uomo

non contro l'uomo medio!

Ma quel regista che è curia, che è folla, che è mille registi

quel piccolo paradossale, quel regista-dio uccisore di dio

ovviamente, infine, si è depresso

perché Nichilismo significa sempre una cosa deprimente

Moloch che si guarda allo specchio e urla "Mostro!"

 

 

II

 

Oh, se il momento presente comprendere poteste,

e come, al di là di passato e futuro,

anche il solo attimo presente sia pieno,

urlereste allora con me: Nihil non esiste!

Il nulla non esiste, è solo un idolo tratto da una frustrazione

vomito prodotto dal vomito, una superfetazione!

E come anche questo sia in fondo un idealismo.

Nel pugno che sferra il colpo nello stomaco dell'amico

c'è la mano, il nostro sangue ricchissimo,

l'Uomo che non è mai morto da settanta millenni

e ogni infinitesimale muscolo, muscoletto, legamento

e ogni osso, ossicino nella mano che si stringe

che disegnata dai Maestri sembra quasi disegno divino  

e, in questa mano mossa alla grande opera,

c'è sicuramente anche il divino, un piccolo dio ma c'è

e chi ha visto l'India, la Cina e l'Egitto lo sa,

se ne rende conto perfettamente.

Intorno a noi, pure in questo sporco Occidente,  

se guardiamo bene non c'è uno spazio che sia vuoto,

e perfino nel deserto  c'è tutto, come disse Wenders

In un pugno di terra miliardi di microrganismi

e nella notte senza luna contiamo meglio le stelle

Perfino la caduta di una meletta matura ci dice

quella forza terrestre sempre in atto nell'immobilità

E il tempo è gemello dello spazio: mai vuoto,

ogni secondo è colmo di potenza.

Per gli antichi orientali il vuoto è forma

e non morte, non morte, non morte!

Dio è morto solo per l'idiota Nietzsche!

Quando non avrò più un domani

mi auguro di saper vivere il presente

finché non tirerò il mio ultimo respiro

 come in un momento di rinascita,

perché a questo porterebbe tale arte,

a una grande opera di rinascita.