"Il nome della rosa" e la falsa letteratura della mistificazione
Qui analizziamo, secondo esegesi, ma anche con qualche slancio nell'ermeneutica, una pagina del libro Il nome della rosa di Umberto Eco. Chi non lo ha mai sentito nominare? Un romanzo del 1980 che purtroppo, ancora oggi, viene elencato da alcune case editrici (evidentemente interessate a diffonderlo e venderlo) , o da chi per loro nel misterioso mondo della Rete, come uno dei "libri più importanti della contemporaneità", uno dei "dieci libri che bisogna leggere" ecc. Queste sono le frasi che ho digitato su internet cercando di ampliare la mia conoscenza degli ultimi autori premiati. Avevo voglia di leggere gli ultimi vincitori del Campiello e dello Strega.
Accanto a Paolo Cognetti, che consiglio, soprattutto il libro Il ragazzo selvatico, che è un testo recentissimo, troviamo purtroppo questo testo polveroso, cinico, nichilista e noioso, nonché falsamente avanguardista (ricordiamo l'adesione di Eco al gruppo '63 dei falsi poeti Sanguineti, Balestrini e altri) che è Il nome della rosa. E lo troviamo come se fosse ancora elencabile come contemporaneo.
La scrittura vagamente goticheggiante, masolo per il linguaggio desueto, la trama insaporita con fatti, fatticelli, nomi e nomignoli dell'epoca medievale ecc. sono tutti elementi per divertirci; e certo come libro di intrattenimento può anche passare, ma allora è molto meglio "Il trono della bestia" di Renzo Rosso. Per niente massonico nella sua impostazione, senza falsi valori nobili assiomatici, ma semplicemente più vicino a noi del popolo, a noi che non abbiamo velleità aristocratiche, ed anzi subiamo il potere in ogni sua forma. Oggi, infatti, subiamo il potere del Clero come non succedeva più dal tracollo della DC, e il potere della Nobiltà, come non succedeva più dal dopoguerra. Ma subiamo anche il predominio dei Poteri forti, cosiddetti, e il Nuovo Ordine Mondiale non è che una serie di decisioni prese a tavolino nelle stanze segrete dei templi massonici e delle varie Commissioni paramassoniche che hanno preso il sopravvento, incluso il suddetto Bilderberg. Il Trono della bestia evidenzia invece il nostro potere: la forza dell'innocenza, della fede, dell'onestà, dell'intelligenza: Vilderico è un fraticello umbro che nell'anno Mille viene trasferito a Roma, e qui, egli, così giovane e innocente, ma anche critico e intelligente, registra nelle sue lettere inviate al monastero umbro da cui deriva la situazione corrotta della corte papale, dove Benedetto IX è un crudele e depravato papa ragazzino, e dell'impero in lotta con il papato. Renzo Rosso non è un autore aristocratico, ma sembra quasi un giornalista del Medioevo per la sua capacità di immedesimarsi perfettamente nel tempo, nello spirito e nel linguaggio, oltre nel suo riuscire come cronista della corruzione e dell'innocenza ad essa costantemente opposta. Non c'è nessuna ironia da borghesotto, e lo stile è sempre perfetto, complesso nella sua semplicità. Complesso perché Rosso riesce a essere comprensibile pur utilizzando termini ormai desueti, un vocabolario che egli media con la lingua italiana contemporanea, ma l'esito è eccellente perché senza uso di note riesce comunque a essere fluido nella sua difficoltà. Lo scrittore deve aver compiuto uno sforzo titanico nel riuscire a mantenersi sempre leggibile pur sprofondandoci in quell'epoca, e in quella lingua. Il testo di Eco, invece, sul piano linguistico, difetta non poco sul piano della mimesi. Non è realistico pur quando vorrebbe proprio esserlo, e ciò dipende dal fatto che Eco si mantiene distaccato dalla materia, come un professore che si diverte a ripercorrere quei tempi. Percepiamo questa leggerezza fastidiosa dietro l'elenco eccessivo di nomi e luoghi e fatti storici che non diventano mai cronaca e realtà ma restano galleggianti in una dimensione pseudoletteraria. Qualcuno lo ha paragonato a James Joyce, ma questo è un errore. Il complesso autore irlandese giocava con la materia letteraria cosciente di fare della metaletteratura, mentre il semplice autore Eco, bolognese d'adozione, non stratificato, non dantesco, non piroclastico, sembra voglia giocare a immedesimarsi nel Medioevo proprio come l'infante massone che indossa il gonnellino, imbraccia lo spadino e accende la candela pensando che questo basti a mettersi in parallelo con i templari di Demolay. Ma non è così che si salva il tempio di Salomone, ovviamente. Allo stesso modo non si fa la letteratura con il cinismo e l'ironia. Renzo Rosso non era un massone né s'incontrava segretamente con Berlusconi e D'Alema come invece faceva il prof. Eco, e con Montezemolo e Gianfranco Fini presso l'Istituto paramassonico Aspen. Renzo Rosso, insomma, non aveva santi in paradiso, come si dice, e quindi il suo fraticello così serio e giusto non doveva essere premiato come meritava. Meglio premiare le barzellette di Totti camuffate di professorale sapienza, potrei aggiungere con ironia. Ma non voglio basare la mia ermeneutica sulla mia stupida ironia, perché l'ironia è sempre stupida, soprattutto quando viene spacciata per intellettualità. Amica del cinismo, un vero piatto servito dal Diavolo in molte salse. E dico questo sapendo bene che il diavolo non esiste, e tuttavia, se esiste per certe menti medievaleggianti, esiste purtroppo anche per noi che ne riceviamo ogni giorno tutto il male. Insomma, nella comparazione tra le due scritture medievaleggianti consiglio vivamente la lettura di Renzo Rosso. Per quanto concerne invece il nostro professore avanguardista, continuerò a perdere il prezioso tempo della mia vita portando avanti per qualche altro minuto questa esegesi, che per me vale sempre e soprattutto come ermeneutica.
Ebbene, qualche riga prima di queste, Eco cita Boezio: "perché, come dice Boezio, nulla è più fugace della forma esteriore". E qui è proprio il caso di penetrare ermeneuticamente questa frase un po' gettata là, da professore che parla a degli allievi, non da scrittore di un testo "labirintico", come è stato definito. Il distacco del professore dalla materia dell'opera è un problema stilistico dominante sull'intera l'opera, come dicevo. Mentre Renzo Rosso non usa la propria voce come voce narrante - supera il concetto di narratore - Eco, pur essendo un sedicente avanguardista, è ancora legato a vetusti mezzucci letterari. La mimesi è impossibile, e questo non fa che staccare anche il lettore dalla materia dell'opera. A questo punto qualcuno potrebbe all'effetto di straniamento brechtiano, ma non è così. La regola di Brecht, o di Pasolini, o del neorealismo, vale per il teatro e per il cinema dove la mimesi sarebbe contraria alla problematizzazione che si persegue. In parole povere diciamo che l'azione, l'immagine, il gesto con cui si danno le due arti dette sono per loro natura dei fatti mimetici che trasportano lo spettatore in una dimensione finta, inventata dalla finzione teatrale o cinematografica, e questi processi impediscono una distinzione di contenuti, una riflessione del fruitore, un uso dialettico e dinamico della sua intelligenza. La dialettica della magia del cinema, chiamiamola così, è contraria rispetto alla dialettica razionale, logica, analitica di un Brecht che per impedire al macellaio di ritornare macellaio crea un effetto di straniamento, cioè di distacco tra lo spettatore e la materia dell'arte, forzandolo così a prendere posizione autonoma. Nella letteratura funziona diversamente e quasi all'opposto. Il narratore, lo scrittore-narratore, l'autore che ci parla in prima persona ci impediscono di leggere appieno, di impossessarci della materia, ponendo un filtro tra noi e la materia, che resta in mano all'autore, gelosamente custodita come una proprietà privata. L'autore ci rende solo partecipi di una lettura di seconda mano. A meno che l'autore non sia così abile da riuscire in un'opera di metaletteratura, e viene con sé la percezione di una struttura sulla struttura, di un occhio non nostro che si accompagna, in parallelo, al nostro. Ma se il livello di metaletteratura è frutto di un'azione sofferta, di un distacco doloroso (come in Gide o in Camus, ad esempio) allora noi partecipiamo appieno dell'opera, soffrendo con l'autore. Se invece il livello metaletterario è facile, come in questo caso, frutto di povera ironia, noi restiamo fuori, a raccogliere le briciole dalla mano dell'autore, per sua concessione. L'aspetto aristocratico della vicenda stilistica di Eco è tutto qui. Del resto, lo ripeto, Il nome della rosa è strutturato come una serie di barzellette. L'intento è un po' quello. Si tratta di un testo superficiale, mistificato come un testo quasi serio. E qui posso trovarmi d'accordo con chi ha paragonato questo libro a "Cent'anni di solitudine" di Garcia Marquez. La voce narrante di Marquez persegue lo stesso risultato e lo ottiene: intrattenerci con delle storielle, con una cronaca inventata o romanzata per l'intrattenimento del lettore. Nel film "Magnificat" di Pupi Avati lo stile realistico, da camera portata quasi a spalla, tentennante, contraddittorio, difettoso, alla Pasolini insomma, ci ricorda appunto che lo spettatore non è lì solo per godere o solo per abbandonarsi alla rappresentazione, ma per pensare, per ragionare, per riflettere, e può farlo solo vedendo il proprio occhio che guarda la scena compiersi. Nel "Decameron" Pasolini è regista-narratore, e talmente evidente è il gioco metacinematografico, trattato con grandissima abilità, che Pasolini interpreta perfino il personaggio dell'autore delle storielle che stiamo fruendo. E' lui stesso che si riprende mentre scrive il film. Ma questo si può fare con una materia allegra, dove il distacco è logico. Chi racconta le barzellette, come un tempo il cantastorie, le racconta sempre per voce popolare, mai onorando se stesso. Eco, invece, se ne è straonorato di questo suo libro, mistificandolo come un testo di grande statura. In realtà ammise la mediocrità del testo, come disse lui stesso, ma citando un banchiere inglese aggiunse che "se la moneta peggiore vince quella migliore allora la moneta peggiore è la migliore". Vi sembra un modo di ragionare questo? A me pare una vera immondizia sul piano del ragionamento, oltretutto dannoso, come ragionamento economico. Non sarà per questo motivo che il dollaro ha spazzato via molte monete locali, dall'America latina all'URSS dei tempi di Gorbaciov, e noi ancora ne stiamo pagando le conseguenze, non ultima la guerra in Ucraina? Lo stesso vale per il crocefisso che ha spazzato via gli dei indigeni di molte popolazioni, grazie alle crociate! Ma vale anche per i libri mediocri che spazzano via quelli più validi. Se davvero il filosofo Eco avesse ragionato così come ha affermato, avrebbe dovuto ritirare il libro dal mondo. O avrebbe dovuto non pubblicarlo proprio, per impedire che la mediocrità potesse estendersi a macchia d'olio tra di noi. Eppure il filosofo ha preferito continuare a godere di tale onore piovuto al cielo. Oppure piovuto da una critica altrettanto mediocre, da un potere politico suo amico ecc. Tanto è vero che nel 1981, otto mesi dopo la pubblicazione del libro, Il nome della rosa vince il Premio Strega, il più alto riconoscimento letterario in Italia. Nel 1999 fu selezionato tra "I 100 libri del secolo" dal quotidiano francese Le Monde e nel 2009 fu inserito nella lista dei "1000 romanzi che ognuno dovrebbe leggere" dal quotidiano inglese "The Guardian". Quanta fortuna per un libro definito mediocre dallo stesso autore!
Per
Boezio la musica era un fatto volgare, superiore era il manovale, il muratore
costruttore. Immagino che per il libero
muratore Eco questa visione fosse simpatica, tuttavia, quanto sia volgare
questo punto di vista per la sua grossolanità e ottusità non si può dire!
Cassiodoro,invece,
sapeva concepire la portata spirituale dell'arte. Il fratello muratore Eco
(massone senza dubbio, da fonti sicure viene definito "massone
rosacrociano") non poteva non concepire i liberi muratori come al di sopra
dei musicisti. La musica, al massimo, accompagna quello spirito che le mura di
una chiesa portano in alto. Figuriamoci che nel 2016 è stato perfino pubblicato
un libro il cui titolo è "Umberto
Eco e la massoneria", in cui si tenta di affermare la distanza tra i due
soggetti. Ma quale motivo avrebbe
scrivere un libro con questo titolo, se non per l'esatto opposto di quanto
affermato? La massoneria vive di segretezza, lo sappiamo tutti, soltanto un
massone dichiarato può svelare i nomi che la compongono, o non la compongono.
Ma massoni come Calvi e Pecorelli sappiamo che fine hanno fatto.
Dunque,
in nome di Voltaire, che era consigliere del re - e non certo del suo
antagonista Rousseau, ispirato dal popolo e parlante per il popolo - la visione
di Eco è massonica e aristocratica. La massoneria stessa vive una condizione
aristocratica, non solo per i valori "nobili" della libertà, della
fedeltà e della fratellanza ma proprio perché questi valori implicano una loro
superiorità idealistica sul mondo, e di fatto pongono colui/colei che li
professa in questo modo (settario, occulto, esoterico), sopra il mondo. Vi è
poi anche la ridicola, infantile ritualità
(gonnelle, candele, spadini, templi dai pavimenti a scacchi ecc.), che è
ridicola e al contempo drammatica. Una tale drammatica sensazione di
superiorità (autoconferita) che appunto si avvale, per il dramma, di templi,
così si chiamano. Templi e non sezioni di partito, non sedi di associazioni. Il
massone crede di agire come un'autorità, che sia sacerdote, iniziato o dio
medesimo. Al 33° grado della massoneria crede essere addirittura Satana,
l'alter ego di Dio. Nei gradi precedenti rinuncia alla Chiesa, sputa sulla
croce, viene "incorporato nel regno di Satana"(come recita la
formula). A un certo punto, dopo questo lavaggio del cervello, che si è
autoprocurato, diventa l'Anticristo, o meglio: il matto in gonnella che crede, mediante
questa gerarchia di eventi, identificarsi con il diavolo. E cercando di
assomigliare al male incarnato comincia a comportarsi secondo le regole delle
malvagità. Le stragi, le guerre, la povertà, l'esaltazione del denaro
(strettamente in mano di pochi eletti) sono tutti temi che ritroviamo
nell'ordine del giorno del Club Bilderberg. Il giudice Imposimato affermò in
una intervista che "tutte le stragi dipendono dalla massoneria". Il
Club Bilderberg ne è uno snodo semiufficiale, o anche, se vogliamo, un gioco di
questo Anticristo con cui egli si dà e non si dà al mondo, beffardamente,
sprezzantemente, tanto per farci capire quanto sia superiore a ogni istituzione
umana, che nel Bilderberg non può intervenire se non come auditrice. Nel Club
Bilderberg, fondato da Rockefeller nel 1956, gli industriali e i banchieri più
potenti del mondo sono gli interlocutori decisivi, mentre i capi di Stato, se
vengono invitati, è solo come auditori, servi, esecutori. I giornalisti massoni
possono anch'essi udire ma non possono riportare all'esterno alcuna cosa detta
all'interno di quel consesso.
Ma
lasciamo il concesso demoniaco e torniamo al testo esoterico, che non è solo lo
scritto di un professore di semiotica, amante del Medioevo come del tempo della
sua fissazione patologica, direbbe uno psicanalista, ma è il testo della
massoneria, ovviamente. Qualcuno ha
rilevato che il livello esoterico del libro è piuttosto importante, con
riferimenti alla numerologia, alla cabala, alla magia che giusto un massone può
apprezzare. In questo i massoni sono dei gran perditempo. Tutta la parte
iniziale che segue la descrizione estetica del personaggio sembra essere una
serie di rimandi a eventi raccolti nella Bibbia che solo una mente malata vede
in questa loro specificità, gerarchia, importanza e successione. D'altronde il
massone legge la Bibbia con un occhio
deformato, con la volontà di vedere l'opera del diavolo nel mondo. "Gli
uccelli si tuffano prima di aver preso il volo" , "l'asino suona la
lira", "i buoi danzano".
L'uccello che si tuffa senza spiccare il volo muore spappolato a terra,
ovviamente. L'asino che suona la lira potrebbe essere lo stesso Baphomet, volto
di capro o d'asino, suonatore perché incantatore, affabulatore. Il diavolo
suona e i buio danzano. Una specie di Apocalisse ma trattata con distacco
ironico, da massone cinico, da laico razionalista. Del resto un professore
avvezzo a scomporre la realtà in tanti piccoli pezzettini dai nomi come
"inferenza" ecc. quale divertimento trarrebbe dall'essere ligio alla
massoneria e all'esoterismo convenzionale? Soprattutto un sedicente
anticonformista come Eco. Divertirsi in questo modo è lecito, dunque, ma tra
uno sbadiglio e l'altro. I libri di Eco non li ho letti se non a pezzi,
sfogliati su internet. Una maggiore attenzione ho dedicato a questo giallo dalla
risonanza mondiale, e ho dovuto farlo obtorto collo. Ho dovuto farlo per poter
parlare sapendo di cosa parlo. I libri di Eco sono mattoni di molte centinaia
di pagine e quelli che non sono in stile
gotico non presentano alcuno stile. Sono irriconoscibili. Chiunque potrebbe
scriverli. Questo libro è riconoscibile in parte, perché fino agli anni '80 ce
ne erano pochissimi come questo. Tuttavia si dica che Eco ha attinto a piene
mani da alcuni libri impostati e scritti allo stesso modo che qualche hanno
prima avevano lasciato un segno come novità, uno di questi è L'ordalia di Italo
Chiusano, ma non è un mistero che Eco si basi sul Doyle autore di Sherlock
Holmes, e del "Mastino di Baskerville". Il protagonista del giallo filosofico, come è stato
definito, si chiama infatti Guglielmo da
Baskerville. E questi era un monaco "già inquisitore", come è
descritto all'inizio. Insomma, nonostante le atrocità della Santa Inquisizione
e tutta la sua storia secolare di terrore, assassinii e roghi, cosa fa Umberto
Eco? Ci presenta un monaco inquisitore. Il menefreghismo è il vero senso del
nichilismo borghese degli anni '80, ovvero del postmodernismo, e Umberto Eco ce
lo rappresentato in molti modi. Anche appropriandosi di un testo che venne
curato da diversi professori genovesi, a cui appose la sua firma e lo pubblicò
a suo nome. Ma sono stati ritrovati nel Nome della rosa anche molti prestiti
dagli scritti di Sciascia, oltreché l'incipit, che l'illustre professore
filosofo dichiarò di aver preso a prestito dal fumetto "Snoopy".
Nonostante Eco dichiari di non voler dare credito all'esteriorità, proprio per quel parallelo con Boezio detto prima, eppure il libro è una sfilza di descrizioni esteriori come questa. Tant'è che Il nome della rosa viene stroncato da qualcuno per essere un libro noioso, eccessivamente descrittivo. In effetti vi sono moltissime descrizioni fisiche, cosa che normalmente gli scrittori risolvono in pochi cenni. Un "ciuffo baldanzoso sulla fronte" di solito basta a dire la baldanza del ragazzo (Pasolini), così come dire che tanto magro che di profilo scompariva"(Calvino). Qui, invece, vediamo addirittura le efelidi. Ma va benissimo. Queste efelidi serviranno a qualcosa, si suppone, e non possiamo cassare questa descrizione come tutte le altre presenti in questo testo per niente religioso, per nulla etico, per nulla parallelo a Boezio. Del resto il superficiale Eco non nasconde altrove il suo interesse esteriore, e la descrittività, quando non è etica, è spesso la qualità di un interesse al dato esteriore.
Il periodo successivo, ossia questo, dal "Mi accorsi" fino a "dall'inizio", cosa significa? Deve esserci un qualche errore perché non si capisce il senso dell'ultima frase, e dunque dell'intero capitolo, di cui l'ultima frase sta a coronamento. Questo "di cui(pensavo) si sa già sin dall'inizio"... dovrebbe riguardare il "vero" quale soggetto, ma probabilmente riguarda, come soggetto, la virtù. In ogni caso cosa si sa già dall'inizio? Se è rimasto in vita uno dei commissari del premio Strega che il 9 luglio dell'80 premiarono questo testo, potrebbe spiegarmi come ha letto questo periodo? Mi basta un piccolo commento qui sotto, sul blog. E poi devo fare un ulteriore rilievo sintattico-grammaticale: "ma all'inizio poco sapevo"... "si sa già sin dall'inizio" compongono una ripetizione che è tecnicamente un errore, si chiama come minimo ridondanza, ma io direi che è proprio un difetto di chi non è un vero scrittore, e forse è solo un professore di semiotica. Il mondo è un luogo di sognatori e quanti professori di letteratura sono romanzieri mancati è una realtà inopinabile, ma ciò non è penoso,basta avere l'umiltà di ammettere che non si è capaci di scrivere romanzi. Invece di compiere false ammissioni modeste dicendo questo è il peggio che ho scritto, volendo cioè intendere che gli altri sono dei capolavori. Eppure chi ha letto Dostoevskij, Balzac, Morante, Moravia e Calvino, solo per fare alcuni nomi, sa benissimo cosa significhi la vera letteratura. La Morante è complicatissima, tortuosa e limpida allo stesso tempo, proprio come Moravia è freddo ma mai distaccato dalla sua pagina, e sentiamo sempre una presenza accorata benché razionale leggendolo. Per non parlare poi dei due grandi stranieri citati per primi, che per me formano come una coppia, la coppia di scrittori più grandi e meravigliosi che si possa leggere. A vent'anni come oggi che ne ho cinquanta ancora resistono al tempo. Mentre Calvino, il cui discepolo contemporaneo è Stefano Benni, non mi ha mai fatto piangere, né rivoltare dalla rabbia, ma solo perché il genere lieve, la levità stessa, non l'ho mai amata in letteratura. E però una pagina fantastica di Calvino è sicuramente molto superiore per stile, per presa di posizione, per moralità, per senso letterario ecc. alla pagina anodina e affettata di questo mistificatore.
Ammesso che la descrizione estetica non sia, come abbiamo già detto, degna di un Dostoevskij, e tantomeno del molto minore Hemingway, qui siamo al grossolano luogo comune delle "cinquanta primavere" per dire cinquanta anni. Avrebbe anche potuto scrivere "cinquanta lune", perché no? Siamo cioè alla dialettica più grossolana che si possa ricevere da parte di uno scrittore. Poi, la metafora del gambero è meglio saltarla a piedi pari e non parlarne, se non fosse che qui ad essere zoppa non è sola la metafora ma la frase stessa: "il suo spirito vitale partecipasse del gambero". Come è concepibile scrivere che uno "spirito partecipi di un gambero"? Oltretutto non c'è nemmeno una figura retorica che possa essere andar bene per regolarizzare l'esistenza di questa frase bruttissima. Lo spirito che recede, che indietreggia, viene posto sullo stesso piano del movimento del gambero all'indietro ma usando la parola "partecipare", ossia prendere parte. Tradotto in italiano sarebbe: "quasi il suo spirito vitale prendesse parte del gambero"(...). Uno spirito che diventa parte di un gambero? Oppure uno spirito che partecipa della stessa natura indietreggiante del gambero? Oppure uno spirito come quello che muove il gambero? Insomma, in qualunque modo la mettiamo, la frase zoppica in almeno due sensi, dando luogo a un qualcosa di illeggibile.
Qui lo stile non è più medievaleggainte, ma sembra totalmente contemporaneo. L'autor perde totalmente di vista il tempo storico e come un gambero indietreggia e recede nel suo tempo e nel suo linguaggio, non più colorito a quella maniera, seppure vaga e claudicante, con cui ha aperto il libro. Di certo Eco non aveva in animo di addentrarsi nel linguaggio del 1300, compiendo un salto linguistico per lui troppo difficile, richiedente uno studio apposito, che esulava dal puro divertimento per sé e dall'intrattenimento per il lettore. Del resto Eco voleva scrivere un giallo, solo questo desiderava. Doveva intitolarsi "L'abbazia del delitto" o una cosa simile. Con mappe e indizi come in un gioco da tavola. Ecco, diciamo che a parte qualche pagina meglio riuscita, seppure non come letteratura ma come scrittura leggera ed evasiva (evasiva dalla noia della semiotica?), o qualche frase un po' più intrigante, avvolta da un mistero amato e cercato con la penna, che crea della suspense, il libro Il nome della rosa è un totale fallimento letterario. Se qualcosa vale è solo sul piano, appunto, del romanzo giallo a cui si ispira, e non certo sul piano filosofico e artistico, né tantomeno storico. Si dica a questo proposito che troppi errori sono stati ravvisati da storici medievalisti, come la ricetta a base di peperoni, che sono un importazione americana, la musica del violino, che ancora non era stato inventato; e pari fortuna ha trovato presso gli storici della letteratura. Infatti, Il nome della rosa non viene menzionato nella maggioranza dei manuali di letteratura, proprio come gli altri libri di Eco, che evidentemente non sono poi tanto migliori di questo, come il semiologo credeva. Ma il narcisismo di oggi è un grave problema sociale, fino al punto che lo stesso autore circa vent'anni fa creò una casa editrice apposta per ripubblicare Il nome della rosa. Un autoerotismo di cui solo una primadonna può imperlarsi, non certo un vero scrittore. Al contrario: i più grandi scrittori non hanno mai avuto fortuna, e anche quando l'hanno avuta hanno dovuto lottare con i denti per tenersela. Nelle "Illusioni perdute" il grande scrittore che ha ormai raggiunto il Grande mondo, come lui lo chiamava, non è più l'Honoré de Balzac che è riuscito ad essere, ma un giovane che ha smesso di illudersi nei confronti del mondo, dell'uomo e dell'arte. Lo stesso Dostoevskij come molti altri immensi autori è morto povero e malato, a riprova che con l'arte non si mangia. Pasolini, per quello che ha scritto è stato assassinato. Mentre Hemingway, che era mediocre, uno scrittore parattattico come molti che lo hanno seguito, anche ispirati da lui, viene portato ancora oggi su un palmo di mano. Proprio come Umberto Eco. A proposito di paratassi, ho appena letto le prime pagine dei nostri scrittori italiani più premiati, sempre basandomi sulle liste ricavate da internet, e devo dire che a parte Cognetti e Murgia, tutti gli altri sono penosamente illeggibili. Premi Strega e Campiello dati davvero a cani e porci, come diceva Eco a proposito degli scrittori autopubblicati su internet. Secondo l'aristocratico settario Eco, internet aveva dato una possibilità ai mediocri di pubblicare, ma gli elenchi sbandierati dalle case editrici contano nomi di autori penosissimi. Evidentemente i Premi e le Case editrici con la maiuscola seguono direttrici che non sono di qualità, e allora benvenga internet che mi permette di pubblicare, di esprimermi seppure in un piccolissimo frammento di mondo dove mi trova solo chi mi cerca o per un caso legato alla navigazione più banditesca e corsara. Insomma: anche su questo il grande filosofo non aveva capito niente.