A dire "albicocca" cosa
diciamo?
Diciamo sempre la nostra
consapevolezza della cosa. Ma la consapevolezza di una cosa è sempre diversa,
poiché la materia della nostra mente è sempre diversa, mutevole, o così
dovrebbe essere. Ma anche se siamo chiusi in una casa, e la nostra casa mentale è chiusa e fatta di muri verso ogni
esperienza di diversità e mutamento, c'è pur tuttavia il nostro mondo
interiore, coi suoi cambi anche repentini, tali che possono far passare un
intero universo tra 0 e 7 secondi. Universo che dipende dall'agilità dei nostri
pensieri all'interno delle mura, o della gabbia. La parola "dipende"
è dunque la parola che presiede a ogni discorso su qualsiasi tema, anche
rispetto a un'albicocca.
La mente di un carcerato dovrebbe
essere meno agile e volante di quella di un uomo libero? Scusate, vorrei
cambiare la parola "libero" con "non carcerato" poiché
anche qui, quando diciamo la parola "libero", usiamo un'angolazione
visuale, un concetto della cosa che può variare a seconda della nostra
consapevolezza della cosa. In questo caso l'albicocca è una condizione di
stato; infatti, se metto a confronto la mia condizione di stato
"libero" con quella di un carcerato posso appunto affermare di essere
libero, ma se poi devo lavorare per poter provvedere alle spese della casa, del
veicolo privato o dell'abbonamento al mezzo pubblico, delle varie tasse sulla
mia proprietà o sull'affitto, e poi sul mio lavoro, sui miei consumi e rifiuti
e tante altre cose, ecco che l'economia quotidiana mi impone una condizione
diversa da quella espressa con la parola "libero", e se non assumessi
una consapevolezza corrispondente alla mia reale condizione questa bella parola
assomiglierebbe sempre più a una brutta parola, usata da qualcuno o da un'intera cultura per
distrarmi da me stesso.
La nostra consapevolezza è un salto
al di là dei dizionari e delle propagande, è un'ascesi che si offre a tutti,
laicamente e globalmente, su un'intera società.
Ascesi mentale, o "trasmentale"
( Majakovskij), fra la nostra mente e la cultura dominante, che è Dominio. Dovrebbero
essere i dizionari a dipendere dalle menti che li stilano, e non il contrario
. Proprio come le parole dei dizionari, che sono organizzate secondo lo
schema: da una parte la parola da definire e dall'altra, su una fila appaiata,
la definizione, che è sempre compresa in poche o pochissime parole (che sono
altre parole e non esempi o rimandi ad azioni da fare - ma su voglio tornare
più tardi), in modo molto simile le cose della cultura dominante ("la
parola porta la cosa" - André Gide) sono organizzate dal Dominio perché la
nostra mente abbia forma similmente schematica, semplicistica, bruta e, infine,
folle. La semplicità, linearità e schematicità di un dizionario non ci dà forse
il senso di una qualche follia? Una follia lineare perché, appunto, organizzata
e organizzatrice. La nostra stessa mente è concepita dagli stati civili, in quella
forma di civilizzazione che conosciamo noi "occidentali"(altra parola
che dovrebbe essere risignificata,
come del resto la stessa parola "civile"), per essere una sommatoria
di nozioni fisse e comprese in poche sillabe, proprio come quelle dei
dizionari, che ingialliranno prestissimo, proprio come le pagine di carta.
La nostra mente non deve essere un
universo di agili pensieri e consapevolezze attive e dinamiche che mutano
cercando il più possibile di stare al passo con la realtà, con la natura (da
cui veniamo, come madre) e coi mutamenti del mondo.
Anche la realtà tende a
"ingiallirle", e tende sempre a una trasformazione, che essa
realizza, in cui siamo compresi anche noi. Ma lo fa con la propria potenza che
è novità, diversità, mutazione e non con l'artificiosa, astratta, stantia forza
di una formula di definizioni. Qualcuno disse: "definire è
uccidere". Io dico che vi sono definizioni più o meno assassine, perciò
vi parlo di un dizionario dinamico al passo con le cose che esso simboleggia
con ciò che chiamiamo "lingua". Chi ha detto che una lingua debba
essere necessariamente convenzionale?
Quanto noi possiamo ben vedere nella
natura non è mai convenzionale, ed è per questo, per meno rischiare l'insensatezza
e la follia della convenzione fissa, e per essere più naturali e reali
possibile che io propongo di superare i vari Zanichelli o Garzanti per stilare
nuovi dizionari. Dizionari dinamici e quindi più veritieri, che tengono in
conto il mutamento generale.
Un'idea potrebbe essere
rimandare il lettore del dizionario a un riscontro nella realtà. Perlomeno
su una buona parte dei vocaboli, e sicuramente quelli più a rischio di
propaganda, ma anche quelli legati alla natura, che sta mutando sotto i nostri
occhi più o meno spaventati, in questo momento di strani tzunami, nuovi fenomeni, plurime estinzioni e processi
ambientali tali da ridisegnare il pianeta.
Donald Trump ha dichiarato di non
voler firmare "il patto sul clima" e questo fra poco porrà certo
l'esigenza di riscrivere i dizionari del mondo; sono infatti sicuro che la
maggioranza dei dizionari del mondo riportano, come fossero vivi, nomi di
animali che sono estinti già da qualche anno. E sono molti altri gli animali
che di questo passo si estingueranno nelle prossime ore del mondo, se il patto
sul clima non diventerà un principio universale indiscutibile.
Ma se il dizionario è consapevole
dell'estinzione del mammut, e ci offre tale consapevolezza, perché continua ad
annoverare come esistenti quegli animali, quelle cose e quegli oggetti che
invece sono estinti o "superati"? Non mi riferisco solo ai dizionari
cartacei, che scontano un ineluttabile ritardo sulla realtà, ma ai dizionari on line, che sono quotidianamente
aggiornabili.
Ma a parte gli animali, anche le
cose e gli oggetti si estinguono, o mutano, e l'estinguersi o il mutare di un
oggetto o una cosa è un fatto che dovrebbe essere riportato nei dizionari, se
non vogliamo che il significato dato della cosa non sia falso, non più reale, o
totalmente impreciso.
Quando un dizionario riporta un
vocabolo obsoleto lo chiama "obsoleto", ma siamo sicuri che oltre a
quelli definiti ufficialmente obsoleti non siano molti di più i vocaboli significanti
cose ormai superate nella vita reale? Un buon dizionario dovrebbe spendere
almeno una riga sullo "stato reale e vitale" del vocabolo menzionato.
Se il rinoceronte esiste ancora oppure no, se l'aratro esiste ancora oppure no,
etc.
Ecco che tutto va nel senso della
conoscenza e della "consapevolezza"; torniamo quindi alla nostra "albicocca"
e alla nostra condizione di "libertà".
La mia condizione di uomo libero non carcerato, che è
tipicamente cittadina, e in quanto tale non solo mia ma di milioni e milioni di
persone, va considerata a seconda dei gradi diversi di consapevolezza.
Potremmo anche essere molto più simili a dei carcerati di quanto non pensiamo se,
per esempio, la nostra condizione viene confrontata con la condizione
di un contadino che vive del suo raccolto e una volta effettuata la scorta di
viveri necessaria a sostenersi per mesi, così come la scorta di legna per
alimentare il camino, può benissimo smettere di faticare e di avere preoccupazioni,
e può sdraiarsi nell'erba, riposare, giocare coi figli, andare a cavallo, leggere
libri a iosa, scrivere, nuotare in un fiume pulito ( se ancora ce ne sono) e assumere così un'infinità
di abitudini volte alla libertà e ai segreti dolci della vita - tra cui metto
anche i segreti amari e dolci della conoscenza - e dunque a tutti quei
piaceri che si possono estrarre e godere perfino con buon grado di estasi e che
sono completamente irraggiungibili al comune cittadino che procede di rovina in
rovina, di patologia in patologia, per segmenti di vita-non vita che possono essere
qui tradotti in altri segmenti come casa-lavoro, traffico-rumore,
diffidenza-paura, stress-sfogo, pillole-alcool ecc. Tratti della vita cittadina
e in particolare metropolitana che infine possono facilmente combinare, tutti
insieme, quel cocktail di follia che nel dizionario si chiama
"metropoli". Ma i dizionari non ci parlano con franchezza della
metropoli, non ci forniscono conoscenza, non ci inducono alla consapevolezza.
Mediocri, poveri, semplicistici? No,
in realtà sono anche volontariamente falsi, ideologicamente speculari al Dominio,
e dunque non portano il significato reale e nucleare della parola ma ce ne
danno solo un senso astratto, teorico, tecnico, esteriore secondo lo schema improntato
dall'alto . L'Accademia della Crusca, se esiste ancora, è una falsa Istituzione
con la i maiuscola preposta a fuorviare la nostra consapevolezza della realtà
per via di un consesso di linguisti sempre più tecnici che sono ormai una vera
associazione a delinquere nell'ottica del sommo principio di consapevolezza. L'intenzione
e il perseguimento della conoscenza reale dovrebbe presiedere a tutto, appunto come
principio. E a maggior ragione dovrebbe essere il principio di chi opera a
livello istituzionale. Chi agisce contro il principio di conoscenza reale
dovrebbe essere punito.
Quando questo principio sarà
finalmente chiaro e dato come valore sociale, e legale, i linguisti
compileranno i loro dizionari definendo la parola "metropoli" anche e
proprio per i suoi risvolti tremendi e complessi sulla vita del cittadino e
sulla vita dell'intero pianeta. D'altronde, non sono le metropoli con la loro vita
industriale e consumistica ma anche elettronica ed energetica le grandi
responsabili della tossicità della Terra? Le fabbriche e le centrali elettriche
e nucleari non esisterebbero se fossimo un mondo di agricoltori o pastori.
Sarà sempre un improbabile
dizionario non propagandistico di una rivoluzionaria Zanichelli del futuro a
dare alla parola libertà un significato fondato sulla parola
"dipende" e non sullo schema fornito dal Dominio.
Ma seguendo il flusso della parola
"dipende" possiamo considerare anche il contadino, e non solo il
cittadino, molto meno libero di qualcun'altro. Se assumiamo l'angolo visuale di
un vagabondo che dorme per le strade e mangia alla mensa dei poveri ecco che qualsiasi
contadino, anche il più capace di provvedere a se stesso e a liberarsi della
stretta esistenziale, potrebbe apparire come una specie di
"carcerato". Lo vedremmo là
nella gabbia del pollaio insieme con le sue galline, impossibilitato ad
assentarsi da casa neanche due giorni per sfamarle o per provvedere al
raccolto, ed esposto a perdere anche la minima libertà, che gli può essere
tolta facilmente, se questa dipende da una gelata di troppo o da una siccità
non contemplata.
Un tempo esisteva anche un'altra
condizione umana di vita: la bohème. Ma probabilmente, oggi, neanche a
Parigi esiste più quel ristoratore disposto a sfamare un pittore in
cambio di un quadro. E c'è anche la condizione dello zingaro, che se non
è più il nomade di una volta del nomade conserva comunque la roulotte e una
certa quota di vita brada.
Quanta pena dobbiamo ispirare noi a
certi zingari, così come ne potremmo ispirare a certi contadini romeni che ho
conosciuto; noi che siamo cittadini occidentali coi nostri stress e i nostri
debiti contratti fin dalla nascita. Chi nasce con la casa, se la porterà
addosso prima o poi, che sia un loft o una bicocca, proprio come il contadino
con le sue galline.
Entrando per curiosità in un campo
nomadi conobbi un giorno uno zingaro che diceva di istruire suo figlio non con
la scuola dell'obbligo ma con le virtù della sua roulotte, che probabilmente
era una biblioteca su ruote. Ma seppure non fosse stata una biblioteca su ruote
e non avesse fornito quelle conoscenze e nozioni che stanno nei libri, cosa che
tutti presumiamo pur non essendovi entrati, potrebbe aver soddisfatto davvero
l'istruzione del figlio. State forse sorridendo a questa idea? Molti ora
staranno sorridendo, o dovrei dire "ghignando dall'alto", perché
presumono - ma con troppa presunzione - che l'affermazione di quel padre di
famiglia zingaro è ridicola, o una cosa fuori luogo, un'assurdità, un'affermazione
ignorante. Qualcun'altro invece, in virtù del suo disprezzo razzistico o
aprioristico verso i rom, starà pensando che è una menzogna spudorata, da
malvivente che si nasconde, da furbo, o magari è un'affermazione tesa a evitare
la scolarizzazione coatta che negli ultimi decenni è stata esercitata sui campi
rom mandando alla suola dell'obbligo coloro che erano in età .
Un'altro lettore tra voi starà
invece pensando di chiudere questa lettura in quanto il suo autore è più matto
del matto, come si dice. E forse lo sono davvero, se quel giorno di tanti anni
fa entrai in quel campo nomadi con l'ansia di sapere, una forza tutta
intellettuale e priva di schemi a priori, proprio come feci sul caso Liboni
andando a intervistare la gente di Montefalco. Ma se me lo consentite,
dopo tanto tempo da quel giorno e cioè dopo quella buona sedimentazione che
rende il vino prezioso, la mia preziosa domanda è questa. Siamo proprio sicuri
che il figlio di quel panciuto zingaro dal viso allegro e simpatico, che
mi ha così ben accolto parlandomi francamente e senza ombra di riserbo o
malafede, quel figlio, o figlia, che è stato istruito nella roulotte, non ha
infine appreso la vita e il disegno globale delle cose meglio di un figlio
tipicamente scolarizzato secondo la scuola dell'obbligo?
La vita non è certamente la scuola,
né il disegno globale delle cose, che è l'ambito della nostra migliore
conoscenza, si può insegnare mediante libri e lezioni tenute in una classe, ma
allo stesso modo si deve affermare che la vita non ci insegna la matematica, né
è possibile sostituire la matematica se non con la matematica, o insegnare la
matematica con altro che non sia la matematica. Eppure, quel padre di famiglia
era molto sicuro di sé e dei propri insegnamenti ed era molto certo che
l'istruzione potesse sgorgare direttamente dal campo nomadi, dalla roulotte,
invece che dalla classe coi libri di testo, con le maestre e poi con le
professoresse delle varie materie.
Su questo mi piacerebbe che qualcuno
svolgesse un'indagine sociale seria.
Se ne avessi la possibilità mi
piacerebbe intervistare questi "figli non tipicamente scolarizzati dei
campi nomadi" per metterli a confronto coi i "figli tipicamente
scolarizzati di una nazione civile come l'Italia". Basterebbero poche
domande, a partire proprio dalla matematica, toccando poi la storia e
l'arte. Probabilmente un ragazzo tipicamente scolarizzato e ancora in età
scolastica, cioè fresco di nozioni e conoscenze, esprimerebbe in modo
addirittura sorprendente un grado di cultura anche buono o quantomeno
sufficiente da far sperare chissà che per il suo futuro; mentre un ragazzo
istruito nel campo nomadi potrebbe non avere neanche l'1% delle nozioni e delle
conoscenze matematiche e scientifiche, storiche e artistiche del suo coetaneo
tipicamente scolarizzato.
Ma il paragone è quasi cinico, e da
una parte implica anche un errore grossolano, poiché stiamo parlando di una
cultura stanziale, quella italiana, la cui scolarizzazione massiva si pratica
fin dagli anni '70, contro una cultura nomade la cui scolarizzazione e lo
stesso concetto di scuola non esistono o se esistono è solo all'interno di una
cultura che si tramanda in modo famigliare. Probabilmente nel loro dizionario
non esiste nemmeno la parola "scuola", e se esiste è per conseguenza
dell'incontro coatto tra la civilizzazione rom e la civilizzazione italiana. Se
però ritorniamo dopo qualche anno da questi ragazzi tipicamente scolarizzati e,
direi, tipicamente italiani, e li intervistiamo ponendogli le
stesse domande di allora, secondo voi riscontreremmo lo stesso grado di cultura
e di freschezza intellettuale di allora o anzi più ampio, come dovrebbe essere?
Io sono sicuro di no, perché vedo bene qual è la loro condizione intellettiva
e intellettuale degli adulti italiani medi. Vedo bene quanto non è
rimasto in vita niente, dentro di loro, dei poeti studiati, delle radici
quadrate e delle balene. E la vedo anche in me stesso, questa morte,
questo morto bagaglio di conoscenze che fanno di quel ragazzo o quella ragazza
che fummo una sorta di penoso fantasma. Ma è colpa nostra soltanto, o è
anche colpa di una scuola improntata a un sapere deciduo e affidata a
insegnanti cattivi?
Resta appena in me, a brandelli, in
pezzi, un nozionismo facile da enigmistica che non è certo definibile come vero grado di cultura.
La maggioranza dei ragazzi
tipicamente scolarizzati dimentica tutto o quasi, ed anzi prosegue in quella
direzione che io chiamerei di "opposta scolarizzazione" e che
consiste nell'abbandonarsi a quell'azione opposta, che è tipica dell'ideologia
e del flusso del Dominio cui siamo sottoposti, nel cui segno si dà quel grado
di oblio, nettamente contrario a ogni sapere e consapevolezza, che è sotto gli
occhi di tutti. E' l'ideologia dell'inconsulta, inconsapevole,
irresponsabile, opaca, irrazionale vita quotidiana così come viene organizzata
dall'alto dei governi e da quella manciata di capitalisti così simili tra loro
da non indicare altra ideologia che questa.
Oblio o sospensione di ogni
conoscenza, ed anche questo sfumato in gradi, come la consapevolezza. Dal
grado più basso al medio a quello più alto e in qualche modo colto, o meglio:
ornato di nozioni ardenti ma non profonde. Il brillante scienziato o il bravo
filosofo, per quanto esperti sulle neuroscienze e sulla quantistica, sono così
lontani dalla consapevolezza di un Lao Tzu che parla di uomo naturale o di quel poeta greco che nelle sue
opere portava l'intero mondo coi suoi mali e le sue grandezze, e cioè quel
disegno globale che ho detto prima.
La maggioranza continua dal diploma
e dalla laurea perseguendo un nuovo analfabetismo. Ho conosciuto di
persona più di una restauratrice e più di un'archeologa che all'atto della scrittura non solo
commettevano errori grammaticali elementari, che sono poca cosa, ma addirittura
non sapevano far filare tre righe. Gli errori semplici sono scusabili, anche i
più grandi scrittori ne commettono, tanto che coloro che chiamiamo revisori di bozze non intervengono per caso ma per un
ruolo ben definito; il problema vero si dà più che altro quando dalla
grammatica alla matematica alla storia all'arte e alle tante discipline che i
ragazzi studiano anche con impegno si comincia a "perseguire" l'opposto: quell'Oblio tipico in cui è così abile l'italiano medio adulto
a dimenticare ogni conoscenza e cioè ogni volontà di conoscenza, e dunque se
stesso.
La parola "adulto" è fondamentale, quanto la parola Dominio.
Il Dominio è adulto, e questo Oblio particolare potremmo chiamarlo il "destino adulto". Sono tentato di dire che il popolo italiano sia più abile di altri popoli e vi si applichi come ai tempi della scuola, in questa morte, ma se fosse così sarebbe un popolo volontariamente suicida e questo non è, nemmeno in questo il mio popolo esprime una scelta.
La parola "adulto" è fondamentale, quanto la parola Dominio.
Il Dominio è adulto, e questo Oblio particolare potremmo chiamarlo il "destino adulto". Sono tentato di dire che il popolo italiano sia più abile di altri popoli e vi si applichi come ai tempi della scuola, in questa morte, ma se fosse così sarebbe un popolo volontariamente suicida e questo non è, nemmeno in questo il mio popolo esprime una scelta.
La lingua italiana, da 9000 vocaboli si è
ridotta a cosa? I neologismi stranieri che la dominano sono migliaia. Gli
stessi insegnanti della scuola italiana vengono aggrediti dallo Stato con frasi
e acrostici quali "peer to peer", "ITC",
"LIM" e altri lemmi che a colpo d'occhio, da quel che ho
visto leggendo alcuni documenti interni alla scuola, dovrebbero ammontare a
cinquanta o più. Tutto un gergo incomprensibile agli stessi
insegnanti. Ma se questo è solo un gergo tecnico del corpo docente
e non esula dal proprio ambito, molto più invadente nella nostra vita e cultura
è il linguaggio dei giornalisti. Vocaboli stranieri presi di peso
dall'economia, dallo sport, dalla moda, ecc. che seppure non entrano nei
dizionari entrano di fatto nella nostra lingua udita e parlata. Ed
entrano nella cultura, che non è solo la moda e l'estetica, ma è l'idea stessa che
un popolo ha di se stesso. L'uomo estetico e l'uomo etico sono concomitanti e
intrecciati, e non avremmo letto l'accorato pensiero di Kierkegaard su questo
problema se non fosse così. E l'applicato, ideologico oblio adulto non
sarebbe infine il totale, drammatico oblio di se stessi se la mancanza di
volontà di sapere non fosse la nuova condizione dell'italiano tipico e dei
suoi omologhi di tutto il mondo.
Ma in questo nuovo analfabetismo che
si delinea, la lingua è pur sempre una delle principali sedi della formazione
e dello sviluppo dei nostri pensieri. Lacan, un uomo dalla visione
globale, ci ha insegnato che il pensiero non esiste senza la parola e dunque senza
la lingua. Ma cosa ne è dunque dei nostri pensieri, della nostra stessa
capacità di pensare, se lingua in cui essi si formano e sviluppano è un luogo
ridotto, sporcato e manomesso?
Siamo sempre noi nelle nostre
nobiltà interiori a perire quando perisce la nostra capacità e freschezza
intellettuale con la sua tensione verso la conoscenza, che è la base del sapere
ma anche del semplice vedere e vivere.
Mangiamo i polpi in tutte le salse,
ma non sappiamo niente di loro. Non sappiamo che sono antichi quanto gelosi,
che il polpo femmina è capace di strangolare per gelosia. Vestiamo le perle in
ogni modo, con orecchini e collane, ma non sappiamo che la perla pregiata
deriva dal rifiuto dell'ostrica per quell'elemento impuro che è penetrato nella
sua fortezza purissima. In realtà chi indossa la perla indossa un granello di
sabbia incapsulato in una sorta di vomito secreto da un essere puro.
La lista delle cose che compongono
il meraviglioso disegno è infinita ma la scuola dell'obbligo, se siamo
fortunati, ce la indica appena, lasciandoci un senso di amore per la
conoscenza. Se la maestra è una grande persona con lo sguardo rivolto verso
questo Disegno ed è capace di indicarcelo, i ragazzi così scolarizzati sono
fortunati. Ma poi ci sono i genitori, la televisione, i videogiochi... che
possono fare di quell'indicazione una terra bruciata.
Quante cose non sappiamo ma le
viviamo o le usiamo, e ne facciamo addirittura il nostro idolo. Non saper più
leggere e scrivere un testo nella propria lingua è stato definito
"analfabetismo di ritorno" e questa mi sembra, una volta tanto,
guardando il panorama linguistico dei nostri sociologi, una frase chiara ed
efficace. Con cui molti di noi devono fare i conti.
Per quanto riguarda invece i figli
degli zingari, che non furono scolari tipici italiani né probabilmente, si
potrebbe dire, sono predisposti a ricevere forme di tipicità, di stereotipi
culturali cui replicare in modo omologato, ecco che le loro risposte da
adulti alle nostre vecchie domande potrebbero questa volta sorprenderci per il
loro contenuto di cultura. E cioè potrebbero sorprenderci in paragone a quelle
degli italiani adulti medi.
Ma veniamo a questo contenuto.
Educato da una madre e un padre
probabilmente simile a lui, tra mille fratelli, quel figlio oggi cresciuto
risponde alle nostre domande rovistando sia nella sua memoria nozionistica,
probabilmente scarsissima come allora, sia nella pratica della vita, che invece
è enorme. Notiamo innanzitutto che ha ricevuto nozioni sulla sua lingua e sulla
lingua italiana e lo vediamo nel suo contenuto culturale più ampio, cioè nella
sua pratica conoscenza delle cose e nella profondità di se stesso, nelle
sue nobiltà.
Quindi: il ragazzo zingaro è
innanzitutto diventato un poliglotta, parla la sua lingua e quella italiana,
mentre la maggioranza degli italiani istruiti non è poliglotta né è in grado di
parlare con facilità un'altra lingua. Nel caso italiano la casa mentale è
gabbia, e la gabbia mentale è la peggiore. Non vedere al di là del proprio naso
è forse il primo problema di questo Paese e di altri come questo. Che sia un
problema mondiale lo si vede dal fatto che il mondo continua a inquinare la
propria casa come non farebbe mai un'ostrica, e continua a uccidere la balena
come uccide sua nonna, per procurarsi appena un po' di soldi, in generale
continuando a prodursi in atti totalmente contro se stesso.
Probabilmente il ragazzo zingaro è
diventato padre, ed è felice di questo, mentre l'italiano medio non figlia e
non è felice della sua vita. Lo zingaro, dicevamo, è ricco di conoscenze molto
pratiche e legate alla sussistenza, però non conosce né Michelangelo né
Leopardi. Molti zingari conoscono perfettamente l'arte del violino, o
della fisarmonica, e pur senza conoscere le note suonano benissimo ad orecchio,
così come ad orecchio potrebbero essere in grado di replicare perfino un
Paganini. Del resto è così: se la musica serve ad accompagnare bene noi
stessi o le cerimonie del nostro campo, allora la conoscenza di Paganini e del
violino ha un senso vivo ed è viva, da musicista che suona la musica, non da
scolarizzato che ha studiato Paganini astrattamente, per mera programmazione
organizzata dall'alto.
La maggioranza degli italiani
istruiti non ha dimestichezza nemmeno con lo svitare una lampadina, figuriamoci
con un violino!
Ma lasciamo l'arte un momento e
veniamo alle scienze, dato che la nostra cultura dominante si professa
tecnico-scientifica. Ebbene, mentre l'adulto medio tipicamente istruito ricorda
appena qualche nozione generica sui minerali e sui metalli, lo zingaro potrebbe
invece stupirci per la sua conoscenza viva del rame, poiché lo ha estratto e lo
estrae ancora, lo ha fuso e plasmato nei modi più diversi e dettati dalle
circostanze, ovvero in quel particolare luminoso buio della vita in cui la
nostra sapienza naturale riceve l'input ad affinarsi. E' il buio lucente della
necessità.
Le persone civili che conosciamo e
che siamo noi non hanno necessità di affinare la conoscenza di nulla poiché la
vita quotidiana media, anch'essa tipica come la scuola, non ci chiede di
vendere il rame per vivere né altre cose che implichino una conoscenza.
Chi vende le case di solito non sa come sono costruite. Chi vende le barche di
solito non ha la patente nautica. Nel capitalismo si può essere
"grandi" senza alcun titolo. In altri termini il capitalismo,
che è l'ideologia in cui viviamo, non chiede a se stesso di sapere ed anzi si
basa sulla netta mancanza di titoli e patenti. Diciamo che il Dominio non
solo non sa che farsene della conoscenza ma ovviamente la teme.
Alcuni zingari sono stati trovati a
rubare rame da un cantiere edile, e questo li decreta dei ladri, ovviamente, ma
quanti di voi leggendo questa mia riga hanno percepito anche un'altra idea
oltre quella che riguarda l'ordine pubblico? Oltre all'idea del ladro si è prodotta in voi, spero, anche
l'idea del lavoratore del rame e cioè la consapevolezza di un
cultura, non solo di un ordine sociale mantenuto con la polizia e con i
giudici.
Quegli zingari non hanno rubato
altri oggetti del cantiere che quell'essenza pratica, quel bel metallo
arancione; sono dunque legati culturalmente all'oggetto rubato, e questo deve
far parte della nostre consapevolezze così come sicuramente questa
consapevolezza farebbe parte della memoria difensiva del loro avvocato.
La frase "essenza pratica"
si addice bene agli zingari. La loro non è certo una cultura e una vita di
fronzoli, fatta eccezione forse per l'oro con cui amano adornarsi.
Torniamo quindi alle scienze
passando per i metalli. Cosa ricordate voi delle tante lezioni di scienze ricevute
a scuola quando eravate ragazzi?
Un adulto medio italiano
potrebbe ricordare come avviene la fotosintesi clorofilliana, ma non nei
dettagli, oppure come avviene il fenomeno della rifrazione della luce, ma non
nei dettagli ed anzi, diciamolo pure, in modo schifosamente generico. Potrebbe
anche avere una mezza idea di come avviene la digestione di un animale erbivoro
e qual è la differenza tra un cetaceo e un mammifero, ma sempre in modo
penosamente generico. E non è anche per via di questa ignoranza che le
balene vengono oggi perseguitate e uccise per mano di persone tipicamente
istruite?
Potremmo definirlo
"analfabetismo di ritorno macroscopico", quando è l'intero disegno
delle cose e non solo la lingua ad essere stato obliato.
Questa volta la scuola italiana è
salva, a fallire qui è la tanto stimata scuola dell'obbligo nordeuropea e la
sua cultura, che non è riuscita a educare i propri figli nel rispetto delle
balene. Lo ripeto: è come se cacciassimo con arpioni le nostre stesse nonne, ma
nell'oblio nordico questa mia affermazione ha sempre più il suono e l'aspetto di una ecolalia.
Continuo dunque a intervistare lo
zingaro.
Egli non sa niente dell'apparato
digerente del cavallo, dice che non lo ha mai studiato ma lo ha visto spaccato
in due da un coltello. Non ha nemmeno una mezza idea anatomica del cavallo, ma
mi stupisce, perché a un certo punto si accende in viso e mi dice che ha
cavalcato un cavallo. Io allora lo guardo con invidia, ma benevola, sono
felice per lui. Dice che li ha sempre visti liberi, i cavalli, che quand'era
bambino li vedeva rientrare da soli alla stalla. E certamente tale realtà
vitale non è neppure paragonabile alla realtà astratta del cavallo illustrata
dal nostro libro di scienze. Forse suo nonno ancora pratica l'arte del
maniscalco, in Romania.
L'insufficienza dell'adulto medio
italiano istruito è oggi il "trend" della sua realtà intellettuale. E
voglio ripetere la parola "trend".
La conoscenza, che determina il
grado e il valore della cultura, è sempre lo stato di una capacità
intellettiva. L'intellettualità di una persona si dà nella sua stessa abilità a
percepire, elaborare, riflettere, ecc. , e ad essere infine consapevole. Ma l'intelletto si
nutre di nutrimenti terrestri (Andrè Gide), non è automatico e meccanico come
nelle parole incrociate dell'enigmistica, per quanto tale gioco sia piacevole e
allenante. L'intelletto è attivo solo se viene nutrito. Cos'è infatti la
conoscenza individuale se non l'insieme dei nutrimenti fondamentali ed
essenziali? Come per una casa la sua struttura, questi nutrimenti sono la calce
in cui ci ripariamo, che è utile, ma soprattutto sono le finestre da cui
vediamo il mondo, che più che utili sono assolutamente necessarie
affinché la casa non sia un carcere.
"Casa" dovrebbe essere ciò
che si accorda a noi più per il vuoto che essa ci porge, per quello spazio
presente in essa in cui ci raccogliamo in solitudine o in compagnia, che per i
mattoni e la calce su cui poniamo mobili, fissiamo quadri e appendiamo
calendari temporanei come tutto ciò che è deciduo e incline ad impolverarsi, compreso
il chiodo che li inchioda al muro. Anche i chiodi primo o poi cadono,così come
arrugginiscono quei loro parenti presenti nel cemento armato che chiamiamo
"tondini" e che servono a lottare contro un sisma . La nostra difesa
principale non è però nel ferro e nella sua fissità o elasticità, bensì è nella
nostra meglio nutrita abilità intellettuale. Così necessaria a resistere ai
terremoti della cultura di massa. I fautori del Dominio ci vorrebbero rinchiusi
nella loro cultura come carcerati stupidi, e qualcuno vi si fa addirittura
ingaggiare come secondino stupido.
Tanto più è ampia la nostra
conoscenza tanto più è ampio il nostro spazio interiore, che è il luogo
dove comprendiamo le cose che ci circondano, dove cioè resistiamo alla
stupidità, ed è la nostra prima casa.
Se la conoscenza della scrittura,
che è un insieme di segni, ci permette di leggere un libro, non diversamente da
un libro con la sua maggiore o minore oscurità si presenta la realtà intorno a
noi. Ed è con maggiore o minore abilità, speditezza e freschezza mentale che
noi possiamo leggerla e comprenderla, oppure possiamo continuare a non
comprenderla e a non volerla conoscere, con la conseguenza di fare su e giù
nella sua gabbia come una tigre. Siamo tigri, tutti, nella nostra potenza
di agilità e forza, ma se questa forza resta a un livello di potenza, siamo
solo degli ebeti. Ebeti tanto presuntuosi da credersi immensamente superiori a
quello che sono.
Siete proprio sicuri che il carcerato
mentalmente e intellettualmente agile, colui che nelle sue quattro mura
squallide alza lo sguardo verso uno scarso quadrato di cielo azzurro e
percepisce la primavera, e magari cade per essa in una sorta di estasi, seppur
atroce, sia meno libero di quell'uomo che ogni giorno per anni percorre gli
stessi metri di strada tra un duro lavoro e una casa cui è legato dal debito
del mutuo o da un affitto atroce e tutto questo solo per fare la spesa,
pagare le tasse e poter acquistare pillole contro l'insonnia e la depressione?
Ho conosciuto un uomo che in galera
è diventato abbastanza colto da aver fatto della sua vita successiva alla
galera una cosa abbastanza libera. Il grado di cultura determina il grado di
libertà. Là ha potuto leggere libri e comprendere tante cose che non aveva
capito, ma questo non significa che "ha messo la testa a posto",
anzi, la sua prima consapevolezza di sé è avvenuta il giorno in cui ha
percepito di non essere uno che doveva mettere la testa dove ce l'ha la
maggioranza, cioè nel culo.
"Disadattato", "drop
out", lo definivano così. Egli era un pittore. Ha sempre amato
dipingere, fin da ragazzo, pur nel suo passato di droga. Si drogava come un
bohémien e la droga solleticava la pittura, l'ispirazione artistica, un po'
come accadde per molti altri pittori, compresi i più grandi maestri, che la
usavano più o meno compatibilmente con la loro musa.
Ma questo fatto per un piccolo paese
di poche anime è certo un gran reato. Anche i reati infatti
"dipendono". Dipendono per valore e significato dalla cultura
generale, ed anche le loro dimensioni dipendono, se grandi o piccole, dalla
stessa ampiezza della città o del paesino in cui succedono, nonché
dall'urbanistica e dalla demografia della città.
In una città dove vivono milioni di
matti nevrotici squilibrati come Roma e tanti sono i morti ammazzati, un
pittore che dipinge i suoi quadri e assume qualche sostanza nel chiuso del suo
atelier passerebbe come un cittadino modello. Invece, nel piccolo paese
di persone perbene,
dove la polizia è il braccio armato del perbenismo e il commissariato è situato
nelle case di tutti, il piccolo pittore drogato è un pericolo. La polizia
ha cominciato a prenderlo sott'occhio, e diciamolo pure: a perseguitarlo,
finché la sua bottega d'arte è stata chiusa e l'uomo, in preda alla rabbia, ha
ucciso un poliziotto sparandogli con una pistola. E come la vita del
poliziotto è finita con la divisa lacerata dalla pallottola, la cattura del
"mostro" è finita con la morte del pittore.
Sono stati i libri la colpa di tutto
questo?
Qualcuno potrebbe metterla così, e
forse l'hanno pure messa così, ma se davvero così fosse allora questo Paese
dovrebbe essere privo di drogati, di reati, di pistole e anche, per riflesso,
di poliziotti, mentre invece ciò che risulta è l'esatto contrario, ovvero che
le forze dell'ordine godono qui di buona salute, che nei Paesi di tutto il
mondo la parola "polizia" è una delle più comprensibili - tanto da sembrar tutti poliglotti - , che le pistole si trovano
facilmente, perfino nella contadinesca Romania, e che, invece, sono proprio i libri
e i pittori a godere di pessima salute e a incontrarsi sempre più difficilmente e di rado.
A questo proposito, alla parola "libri" nel mio
dizionario attivo c'è scritto: bisogna
andare nelle immense librerie di oggi (ad es. Feltrinelli, Mondadori e IBS) per apprendere
cosa sono diventate le librerie e come ad ogni nostra domanda su un libro di
poesia la risposta dell'addetto sia negativa. Potrei fare qui una lista
lunghissima di libri che non ho trovato in nessuna delle suddette librerie. Una lista di libri veri, tanto veri che la parola "libreria" dovrebbe essere corretta in ogni dizionario che si
rispetti.
Dal Garzanti leggiamo:
Libreria: 1. negozio
di libri: libreria giuridica, universitaria, antiquaria. 2. mobile a ripiani destinato
a contenere e conservare i libri: una libreria di noce.
Nel mio dizionario io scriverei:
Libreria: non più luogo destinato a
contenere libri ma una sorta di supermercato destinato in primo luogo a
contenere prodotti di mercato tra cui solo di rado "libri", per
lo più inteso a vendere oggetti a forma di libro privi di ogni valore
letterario e con aggiunte di gadjet e altro.
Luogo adibito alla vendita di
dischi, fumetti, magliette, videogiochi, giochi da tavola etc. Esempi
pratici che indichiamo al vostro intelletto attivo e critico sono, in Roma, la
libreria Feltrinelli di Largo Argentina e la IBS di via Nazionale, e, in
Milano, la libreria Mondadori a via...
A proposito di libri, è meglio che
non citi qui le statistiche recenti in fatto di lettura di libri in
Italia. Per la maggioranza degli italiani è come se i libri fossero
scomparsi dalla faccia della Terra. Eppure le cosiddette librerie ne
traboccano. Vi sono più libri oggi che cento anni fa. Libri stranieri,
nostrani, gialli, rossi, a pallini, tascabili, di gomma, resistenti all'acqua.
Questo avviene come tutto oggi per
motivi di mercato, ma anche perché nel peggiore dei casi i libri sono solo
parole. A volte anche molto brutte, come la parola "trend", che ho
usato prima apposta per dare una scossetta a questa mia discettazione eseguita
in buona lingua italiana, e cioè nella lingua di Dante, come si dice, ma che è
anche la mia lingua, la nostra lingua.
Lingua nella quale mi pregio di
comporre per me e per voi questo scritto, sentita e vissuta da me ancora nel
suo senso originario e nella quale voi potete leggermi, se volete, o non
leggermi. Ma per quanto io la scriva e voi non la leggiate, sappiate bene che
parole come "trend" sono ormai sedute come regine dentro di noi, o
come padrone di casa, nella nostra prima
casa.
Le parole sono le nostre stesse
anime.
I dizionari non sono scritti più nel rispetto dell'Accademia della Crusca ma nel timore ossequioso dell'Economia e dei suoi Consigli di amministrazione (che sono anche quelli delle testate giornalistiche e delle case editrici), e forse sono proprio queste parole italiane di oggi la vera prova
che l'Accademia della Crusca è morta. E con questa anche Dante, ovviamente. E forse
anche la Società Dante Alighieri centro studi e scuola per stranieri.
Quand'ero a Berlino ho cercato più volte la Società Dante Alighieri, sia telefonando sia andando di persona. Il suo nome mi ispirava.
Dante aprì un dibattito fondamentale sulla nostra lingua, che ancora io sento aperto e urgente sebbene nessuno lo intavoli. Ma anche Boccaccio si pose il problema del volgare, cioè del dialetto. Tema che poi fu ripreso dal veneziano Bembo e da tanti altri. Ogni grande scrittore italiano si è posto opportunamente questo problema, dato che ogni lingua implica il legame oscure del parlante sia con se stesso sia col proprio popolo. La lingua è l'essenza di un popolo, proprio come la letteratura ne è lo spirito (De Sanctis). Come quel filo di rame strappato dallo zingaro nella notte, la lingua è un filo che dà luce all'intero edificio sociale.
Quand'ero a Berlino ho cercato più volte la Società Dante Alighieri, sia telefonando sia andando di persona. Il suo nome mi ispirava.
Dante aprì un dibattito fondamentale sulla nostra lingua, che ancora io sento aperto e urgente sebbene nessuno lo intavoli. Ma anche Boccaccio si pose il problema del volgare, cioè del dialetto. Tema che poi fu ripreso dal veneziano Bembo e da tanti altri. Ogni grande scrittore italiano si è posto opportunamente questo problema, dato che ogni lingua implica il legame oscure del parlante sia con se stesso sia col proprio popolo. La lingua è l'essenza di un popolo, proprio come la letteratura ne è lo spirito (De Sanctis). Come quel filo di rame strappato dallo zingaro nella notte, la lingua è un filo che dà luce all'intero edificio sociale.
Se non fosse stata abbandonata ai
"trend", ai "selfy" e ai "fare outing", che è il
linguaggio dei padroni, dei direttori della stupidità generale, dei maniscalchi di quegli asini che vengono spacciati per cavalli, ecco che già la lingua stessa, per proprio moto
interiore, ci permetterebbe una buona parte di quell'ascesi necessaria, chiamiamola così. Uno dei primi bisogni del popolo italiano è quello di elevarsi sulla malnutrizione
intellettuale di cui esso soffre mortalmente. Ma senza il dibattito, che è
il supporto di un moto intellettuale lucido e consapevole da parte di poeti,
narratori, giornalisti, linguisti, antropologi, sociologi, etc. la lingua
italiana o si riduce a una neoprimitività di suoni gutturali inconsapevoli come
questi esposti sopra, oppure al mutismo. Il suo parlante, l'italiano, o si
riduce a bifolco oppure resta muto, come il telefono della Società Dante
Alighieri a Berlino, sempre muto, ogni volta che ho chiamato.
Oggi quel campo nomadi sulla via
Casilina poco prima di via Togliatti dove andai a fare quelle domande non
esiste più, è stato sbaraccato o "superato", come dice il dizionario
odierno (vedi il sindaco di Roma Virginia Raggi che in data 30 maggio 2017
presenta il suo progetto volto a "superare i campi nomadi").
Oggi diciamo "albicocca",
ma quando ancora non sapevano come si chiamava l'abbiamo conosciuta in versione
purè, schiacciata dal cucchiaio di nostra nonna o nostra madre. Non
avendone consapevolezza non l'abbiamo certo apprezzata come invece capitò poi,
all'età di undici o dodici anni, se mi ricordo bene, quando ai brividi dei
sensi si associano i brividi della coscienza e albicocca comincia a significare
"casa di mia nonna al mare", "bellezza dell'estate",
"il mare stesso nella sua ampiezza". Si impastava, nella
piccola albicocca, una mischia di sensazioni e sapori, come la sensazione del
riposino obbligato dopo il pranzo, là nel lettone di mia nonna, nella pelle
bruciaticcia, con mio fratello. L'albicocca poteva essere anche il pomo
segreto, quello più umile degli dèi. Chi ha detto che le Esperidi sensuali e il
serpente Ladone non vigilassero un albicocco? Non sono anche questi dei piccoli
pomi d'oro? Tanto che resta nella bocca una paradisiaca violenza, quando
con amore furtivo ci si alza dal lettone dove si sta leggendo un fumetto,
o si è con Huckleberry Finn, e si va a infilare la mano tra la frutta per
cogliere il pomo cotto dall'estate, d'un arancione tendente al mattone, e
l'estate, mediante l'albicocca, ci dà il senso di quanto la casa sia
protettiva, di come siano sfortunati quelli che stanno sulla spiaggia a
quell'ora, coi piedi bruciati attraversando il bagnasciuga, tra asfalti piagati
dal feroce calore, su cui l'aria cotta ondula la visione.
Ma la consapevolezza sensuale di
un'albicocca si dà pur restando nel letto, perché non è frutto che sbrodola e
il problema del nocciolo si risolve facilmente tenendoselo in mano, uno dopo
l'altro.
Quand'ero bambino devo aver avuto
questa consapevolezza, succhiandola con gli occhi persi nel vuoto. Consapevolezza che oggi è solo un ricordo, oggi che tutto questo non c'è più.
La mia consapevolezza di questo frutto mangiato oggi non si manifesta più come
allora e il suo dipinto qui è solo un ricordo, una natura morta. Ecco dunque
che vi sono diversità, gradi. Diverse consapevolezze e gradi di consapevolezza
all'interno di mutazioni, trasformazioni e cambi interiori. Potrei dire
che c'è una consapevolezza razionale e ce n'è una sensuale. La seconda è quella
del ragazzo e l'ho appena descritta, come un furto, mentre la prima la sto
usando adesso, adesso che non ho più dieci o dodici anni ma quarantaquattro fra
quattro giorni . Questa è razionale ed è una consapevolezza un po' triste,
forse perché risente del suo stesso peso intellettuale e dei pesi morali e
delle stratificazioni del tempo da cui questo peso, che è un diaframma grigio,
deriva. Allora non c'erano queste consapevolezze diverse dentro di me, mi
accostavo vergine ai frutti della natura e della vita, ma in compenso, oggi che
ho più di quarant'anni e come una seconda pelle nella mia bocca, quando mangio
un'albicocca posso provare una specie di "consapevolezza sognante".
Poco fa l'ho provata, e ciò ha prodotto questo scritto. Ieri e in queste
ultime ore l'estate si è aperta, è iniziata, portandomi alla sua consapevolezza al tocco con l'albicocca.
La chiamo "consapevolezza
sognante" questa che proprio poco fa, mentre ero in cucina e mordevo
un'albicocca scura ma non troppo tenera, dolce ma non dolciastra, mi ha offerto
la visione di me stesso bambino che mangiavo un'albicocca. A questa immagine di ieri ho
associato il sapore di oggi.