Questi versi nascono da un episodio avvenuto qualche
giorno fa.
Dei ventenni già noti
alle mie finestre,
facevano il solito strafottente e prolungato rumore a tarda notte.
Siamo dunque finiti in una
lite dalla finestra alla strada,
là dove la protesta è
finita nella minaccia di "darmi un'accettata...
un giorno di questi, se mi trovano da
solo".
Uno di loro mi ha
anche mostrato il coltello.
La
non-vita
osso
gettato dall’alto
bacile di
piscio
che da un
misero potere
a occhi
vuoti di ventenni
e bocche
cariche di rumori
in sporco
avanzo dialettale
ha
nutrito romani senza luogo
in questa
Roma che non è!
Ragazzi
privi
d'ogni proprietà di forza e bellezza,
se la
sola forza, la sola bellezza che conta,
ormai io
so, vengono dal possesso di sé,
dei
propri occhi non ciechi.
E se nel
pieno dei nostri occhi non c'è
magia di
sogni, ragione d'idee
- sole
forze che rendono vita la vita,
realtà la
realtà - allora è la non-vita,
la
non-realtà questo tutto non più vero.
La
comitiva si raduna sotto le finestre,
ma la
strada è vuota
(la
strada che non è più palestra).
“Siamo
tanti”, si dicono fieri i ventenni,
e sono
tanti in questa Roma,
ma Roma è
deserta.
Un avanzo
d’ossa da cani
e un
bacile di dolciastro piscio
dall'alto
ha nutrito romani
al vezzo
di quel Romanzo Criminale
di cui
sono carne queste ombre.
Ed io,
male incarnato nella vita,
anch'io
non sono più nel mondo
se stento
ancora qualcosa di vivo;
magro
autore della mia forma,
fuori dai
piani sovrastanti
dove si
scrivono certi Romanzi
e da
questa televisiva vezzosa filiale
di vicoli
sottostanti.
Non
telespettatore mendicante
non
ansioso padrone d’oggetti
non
bevitore ruttante
non
ricettore di precetti,
disteso
su questo letto come esule
nella
casa di cui sono proprietario;
io più
buio di questa oscurità
e del
sabato dove i ventenni,
con
sporca morte in miseri cuori,
parlano
di festa, e festa è
se
comunque s’accendono, più di me,
divorando
come bestie l’osso,
leccando
nel bacile.
Allogati
nella trama del Romanzo Ufficiale
così bene che non useranno più le
mani
ma il
coltello, dicono,
per
uccidere me, o i loro coetanei,
in questo
giorno di festa
che credono
essere loro.
Dunque,
che più niente sia loro ecco la prova!
Non i
loro amici, così turpi soci,
non i
loro funerei giorni festosi,
mentre mi
scrutano feroci
e con
occhi che non vedono
con nervi
che non controllano
poiché
non ne hanno proprietà,
scendono
in massa, da romani,
in questo
sabato di precetto
da nere
case a nessuna città.
Eppure
tutti noi siamo per essere,
tutti noi
dipinti per dipingere noi stessi
in questa
città che un tempo sosteneva da sé
ogni
impossibile sogno, ogni possibile realtà;
e fu così - ecco un’altra prova – che venni
in questa
Roma popolare, sedici anni fa,
e crebbi
qui la mia dimora come un ragno,
attaccato
ad essa in modo oscuro e beato,
in questo
rione dove bene coincidevano,
già oltre
il mio cuore, Sogno e Realtà.
Ma la
miseria della non-vita
ha poi
fatto il suo corso, e qui,
dall’alto
guidata, certo,
ma anche
dal basso accettata;
avanzo
dei piani alti, sì,
ma anche
dei fedeli semi-interrati,
è
diventata feroce e immonda
proprio
perché non diversa, non strana
a chi
quaggiù era ancora umano.
Pastura
da cani, dolce urina
quella
non-vita con muscoli falsi
che
ovunque oggi ci abbraccia.
E la
natura popolare
che nella
dignitosa povertà
offuscava
ogni potere e portava
la sua
cultura d’essere, ha perso
così nel tempo i suoi diversi passi :
gli
scherzi, con cui si davano i dissensi,
gli urli,
che davano liberazioni,
e le
serenate, che fermavano le strade
senza
replicare i televisivi “talenti”
ma
cantando ancora "barcaroli", "pupi biondi"
e
stornelli da romana bocca sopravvivente.
Nemmeno due decenni e il potere
ha dato
qui i suoi replicanti più tristi,
quei
ritornelli d'un nero o allegro replicare
che non
sono una croce portata
da romani
che ridono perché violentati
o urlano
perché impotenti, come sempre,
secondo i
canoni antichi della bestemmia,
no, fu la
morte di Sogno-Realtà,
fu il
canone del Non-essere-più,
ed ecco la
carne muta di questi figli.
Questa cricca di madri e padri ne sono la prova!
Somiglianti
a brutti amici o strani fratelli,
ecco che
adempiono muti, presumendo di educarli,
a prassi canoniche
con fedeltà da sudditi:
il
non-essere, da cui nessun altro essere deriva,
il non
vedere, da cui canonica cecità discende,
il
non-dire, che tramandasi in pragmatico mutismo.
Priva
pure dell'amore impotente che fu dei poveri
cosa
resta allora di quest'ombra vanitosa?
Solo il sacrificio
dei figli, la carne muta.